Il filosofo Di Bernardo alle logge vibonesi del Goi: «Il fanatismo dogmatico nemico della Libera Muratoria»
Il professore e sociologo di Trento, già al vertice del Grande Oriente d’Italia, scrive una lettera di pubblico ringraziamento alla nostra testata che definisce «eroica, indipendente, presidio di legalità e aperta all’approfondimento di tematiche nazionali». Rivolto ai massoni vibonesi sottolinea poi la profonda differenza tra “fedeltà” e “lealtà”. Ecco la missiva integrale
Arriva una lettera di pubblico ringraziamento alla nostra testata da parte del professore Giuliano Di Bernardo, già docente di filosofia all’Università di Trento, ma soprattutto ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi, la più importante comunione massonica italiana) dal 1990 al 1993. Avevamo dato conto domenica del “botta e risposta” tra Di Bernardo e le cinque logge del Goi di Vibo Valentia, intervenute duramente – con gli attuali maestri venerabili vibonesi – contro una missiva che il filosofo trentino (dal 2002 Gran Maestro dell’Ordine degli Illuminati) aveva inviato a tutti i massoni d’Italia invitandoli ad un “recupero di legalità e di stile”, ponendo la “questione morale” come argomento di confronto per la Massoneria italiana. Un invito rispedito al mittente dai maestri venerabili delle logge vibonesi Morelli, Carducci, Monteleone, Musolino e Murat, e rilanciato dal professore Di Bernardo che nella replica ha chiesto al Goi vibonese di conoscere i provvedimenti adottati nei confronti del massone Davide Licata, iscritto alla loggia Morelli di Vibo Valentia con il gradi maestro, e nei cui confronti la Procura di Vibo ha chiesto il rinvio a giudizio (insieme ai suoi familiari) nell’ambito dell’inchiesta sul “diplomificio” dell’Accademia Fidia di Stefanaconi (a casa di Licata i carabinieri hanno sequestrato anche diverse armi). Ecco la lettera di pubblico ringraziamento inviata alla nostra testata dal professore Giuliano Di Bernardo che pubblichiamo integralmente:
“Caro Direttore,
con la presente intendo ringraziarLa pubblicamente per lo spazio che ha voluto dedicare alla vicenda che mi riguarda. È da tempo che ritengo l’opera di informazione fornita dalle testate giornalistiche locali, ancor più quando aperte all’approfondimento di tematiche nazionali, un vero e proprio presidio di legalità, soprattutto allorché l’“indipendenza” – svestita dal carattere di slogan – assume un significato “civico” in contesti che per ragioni storiche, economiche e sociali soffrono di un incompleto sviluppo democratico.
Ecco, Il Vibonese si inserisce perfettamente in questo quadro di “informazione eroica”, tanto più coraggiosa perché “di prossimità” e quotidiana. E qua vengo al punto, cioè alla contrapposizione, innescata dalla mia “Lettera 2023 ai Fratelli del Grande Oriente d’Italia”, tra me e le cinque Logge del G.O.I. presenti a Vibo Valentia. Intanto è interessante notare che, dopo un falso documento pervenuto dal “Collegio Campania-Lucania”, l’unico Oriente – così si chiama il presidio cittadino che raggruppa più Logge – che si sia sentito in dovere di rispondere al mio scritto sia stato quello vibonese. Questo fatto la dice lunga sul peso che la Massoneria del vostro territorio ha sulle vicende latomistiche nazionali, perlomeno per quanto riguarda il Grande Oriente d’Italia. Ma non è certo questo il punto.
Difatti la mia “Lettera” non si indirizzava ai vertici nazionali o territoriali del Goi (la qual cosa sarebbe potuta sembrare un’illegittima intrusione in affari interni, e risultare sterile), quanto alla coscienza critica di ciascun “Fratello massone”. Molte le risposte ricevute dai singoli, alcune di gradimento altre di rigetto. Tutte sono state da me attentamente meditate, nessuna esclusa. L’apertura di un confronto ha costituito il senso più genuino della “questione morale” posta alla Massoneria italiana. Questa “questione morale”, infatti, non è né potrebbe essere del solo “Di Bernardo” (ci mancherebbe altro!), essa anzi vorrebbe essere l’occasione per una riflessione condivisa, rivolta non solo ad ogni massone, ma aperta anche al contributo dei media e di quei settori della società civile in rapporti con la Massoneria. Sotto questo profilo è chiaro come il tema del fenomeno infiltrativo malavitoso, seppur importante e preoccupante, rappresenti soltanto uno dei numerosi argomenti sul tavolo. Un altro è senz’altro il rispetto della Legge Anselmi.
Da sociologo e filosofo posso affermare che qualsiasi società umana, anche quella maggiormente votata al perfezionamento spirituale, è sempre sottoposta alla caducità dell’agire umano. Questo perché il trovarsi “sul sentiero” della verità – giocoforza – implica il non essere “nella” verità, configurando semmai la tensione verso una condizione attesa, mai pienamente posseduta.
Le affermazioni dei “Venerabili” vibonesi, contenute nella loro “nota di risposta”, sono particolarmente interessanti perché denotano una scarsa confidenza con gli approfondimenti del pensiero antropologico e filosofico. Frasi apodittiche del tipo: “Nel Grande Oriente d’Italia non c’è spazio per individui che non rispettano rigorosamente i canoni che esso promuove con forza, ovvero: onestà, correttezza, amore verso il prossimo, dignità, impegno, etica, legge e legalità”, oppure: “Il Grande Oriente d’Italia è solido e continua a crescere rigoglioso perché le sue fondamenta sono sane e salde, le sue radici robuste e vigorose; tutto si basa su uomini moralmente ed eticamente irreprensibili”, segnalano – senza che essi ne siano consapevoli – la proposizione di un “pensiero debole”, indebolito proprio sul versante dell’ontologia e dell’etica (che così affermate sono in realtà negate).
Questo perché la fedeltà all’“ideale”, che loro identificano con il Grande Oriente d’Italia, perde – nell’ottica fideistica – proprio quello slancio morale che essi, invece, si vorrebbero intestare. Così le affermazioni roboanti finiscono per denotare un vero e proprio “fanatismo dogmatico”, il quale è sempre risultato essere nemico giurato della Libera Muratoria. Il massone, infatti, non è – né può essere – uomo di “fedeltà”, bensì di “lealtà”. Prerogativa, rispetto alla prima, del tutto differente.
I due termini potrebbero sembrare sinonimi, ma non è così, neppure nel linguaggio corrente: “fedele”, ad esempio, è il servo nei confronti del suo padrone, “leale”, di rimando, è l’individuo di fronte alla propria coscienza. Ecco il punto! Ed è proprio questa la grande confusione…: la fedeltà è “cieca”, la lealtà mai, perché a differenza della prima ha a che fare con l’“onore”, cioè con la propria “dignità”. Un consesso umano, in questo caso il Grande Oriente d’Italia, non potrà mai dirsi “puro” per diritto divino, né possono assumerlo tout-court “perfetto” i “Venerabili” vibonesi, in quanto acriticamente «basato su uomini moralmente ed eticamente irreprensibili». Esso, al contrario, risulterà tanto più “fondato in senso etico” quanto maggiore sarà il vaglio critico portato da ciascun aderente circa le sue metodologie e gli scopi della propria azione. Ovviamente si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana…
Questa libertà d’esame è il terreno di verifica della coscienza morale del singolo individuo/massone. Non certo un caos da reprimere, bensì il fondale assiologico per l’esercizio del “giusto”. Una condizione che per chi ricopre incarichi di vertice diventa addirittura un preciso dovere e responsabilità. Nelle righe che precedono, caro Direttore, ho cercato di descrivere l’abbaglio a cui vanno incontro tanti massoni italiani. La soluzione può essere soltanto un recupero personale di “dignità”. Solo attraverso la propria dignità l’uomo è capace di “verità”. Una verità che non è quella delle scienze esatte, ma la quintessenza dei rapporti e delle relazioni. Esattamente un’etica. Tutto ciò spiega perché non è tanto l’infiltrazione malavitosa nella Massoneria a destare in me preoccupazione, quanto piuttosto l’immobilismo cieco di coloro i quali, da Statuto, avrebbero il dovere di porre degli argini e invece non lo fanno. E non lo fanno nel nome di una fede acritica che quando in buona fede finisce – come minimo – per contraddire sè stessa, quando in mala fede sfocia nell’esercizio dell’ipocrisia.
I Maestri Venerabili vibonesi, che mi rispondono accecati dal presunto “tradimento” che avrei realizzato nel ’93 ai danni del Grande Oriente d’Italia, sono gli stessi che da trent’anni tradiscono ogni giorno la loro coscienza e la loro appartenenza, nel momento in cui, nel nome di una “fedeltà” dogmatica assurta a Totem, si girano dall’altra parte, fingendo di non vedere situazioni criminali a loro molto vicine tra le Colonne del Tempio – persino quando rilevate dalla magistratura inquirente -, accontentandosi di trovare consolazione nell’omertoso silenzio della loro condiscendenza.
Questa analisi, caro Direttore, chiama ognuno di noi – non solo tutti i massoni italiani – ad un nuovo punto di vista su noi stessi, su ciò a cui crediamo e su quanto ci impone la nostra morale di cittadini e abitanti della Terra. La piena assunzione di questa responsabilità sarà capace di incidere sui rapporti di convivenza civile e sul modo d’intendere l’ambiente che ci circonda e gli aspetti trascendentali della vita. Le auguro un buon lavoro e La saluto con grande stima”.
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