Istituti di vigilanza e corruzione a Vibo: quattro condanne in Cassazione
Regge anche dinanzi alla Suprema Corte l’inchiesta della Dda di Catanzaro scattata nel 2013 grazie alle dichiarazioni del testimone di giustizia Pietro Di Costa. Ritenuto responsabile pure il poliziotto Stefano Mercadante
La Cassazione ha rigettato i ricorsi dei quattro imputati condannati il 14 giugno dello scorso anno in appello a Catanzaro nell’ambito di un’inchiesta antimafia scattata nel novembre del 2013 e che mirava a far luce sulle pressioni e le ingerenze della criminalità organizzata sugli istituti di vigilanza operanti nel Vibonese. Vanno così definitive le quattro condanne emesse dalla Corte d’Appello di Catanzaro.
Questa le condanne che vanno definitive: 5 anni di reclusione per Michele Purita, di 56 anni, di Cessaniti; 4 anni per Paolo Potenzoni, di 47 anni, di San Costantino Calabro; 5 anni per Carmelo Barba, di 41 anni di Vibo Valentia; 3 anni e 10 mesi per Stefano Mercadante, 62 anni, poliziotto in servizio alla Questura di Vibo Valentia (stessa pena in appello e in primo grado). Un capo di imputazione contestato a Paolo Potenzoni era caduto in prescrizione in appello, altro capo di imputazione contestato originariamente a Michele Purita era invece stato dichiarato prescritto già in primo grado in Tribunale a Vibo Valentia. Vanno definitive, quindi, anche le pene accessorie.
Paolo Potenzoni è stato interdetto dai pubblici uffici per cinque anni. Stefano Mercadante è stato invece interdetto dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, mentre Michele Purita e Carmelo Barba sono stati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici ed interdetti legalmente durante la pena. Michele Purita, Carmelo Barba e Paolo Potenzoni sono stati altresì condannati alla rifusione delle spese processuali sostenute dalla parte civile Pietro Di Costa (testimone di giustizia). [Continua in basso]
Le accuse
Purita e Barba erano accusati di illecita concorrenza, minacce e tentata estorsione ai danni dell’imprenditore e testimone di giustizia Pietro Di Costa, titolare di un istituto di vigilanza a Tropea che avrebbe operato in concorrenza con l’istituto di Purita. I reati per Purita e Barba erano aggravati dalle modalità mafiose e dalla presunta vicinanza degli imputati ai clan Lo Bianco e Barba di Vibo Valentia. Pietro Di Costa, secondo l’accusa, sarebbe stato costretto con metodi mafiosi ad astenersi dall’operare in concorrenza con l’istituto di vigilanza (Sud Security) gestito da Michele Purita.
Il poliziotto Stefano Mercadante, addetto alla sorveglianza sugli istituti di vigilanza privati, secondo l’impalcatura accusatoria sarebbe stato invece pagato nel 2011 da Michele Purita per omettere i controlli sul suo istituto di vigilanza. Da qui l’accusa di corruzione nei suoi confronti mossa in concorso con Michele Purita. Riguardo all’ipotesi di concussione, nel 2008 – secondo l’accusa – Mercadante avrebbe costretto Pietro Di Costa, titolare di un istituto di vigilanza e oggi testimone di giustizia, alla remissione di una querela nei confronti del responsabile di altro istituto di vigilanza (Michele Purita), “minacciando il primo di relazionare informazioni negative con l’intento di favorire il secondo”. L’attività investigativa della Squadra Mobile di Catanzaro, sviluppata con l’ausilio di numerose attività intercettive a riscontro delle dichiarazioni rese dal testimone di giustizia Pietro Di Costa, avrebbe inoltre portato ad accertare attività usuraie subite da quest’ultimo nell’arco temporale che va dal 2001 al 2011 e sarebbero state poste in essere da Paolo Potenzoni.
Carmelo Barba era difeso dall’avvocato Antonio Porcelli; Michele Purita era difeso dall’avvocato Giuseppe Bagnato; Stefano Mercatante era assistito dagli avvocati Francesco Muzzopappa e Alessandro Diddi; Paolo Potenzoni era difeso dagli avvocati Mario Bagnato e Paola Stilo.
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