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Rinascita Scott, il pentito Femia in aula: «Diedi a Pittelli 125.000 euro per aggiustare un processo»

Il racconto dell’ex “riservato” dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica che alla fine incassò comunque una pesante condanna. Le risposte al pm della Dda di Catanzaro Antonio De Bernardo ed il controesame degli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile, difensori dell’ex parlamentare

Rinascita Scott, il pentito Femia in aula: «Diedi a Pittelli 125.000 euro per aggiustare un processo»
L'aula bunker di Lamezia Terme e nei riquadri da sinistra verso destra: Nicola Femia, Antonio Mancuso e Giancarlo Pittelli

«Riservato» dei capi società Vincenzo Mazzaferro e Vincenzo Femia, prima di saltare il fosso. Custode di segreti inaccessibili anche a grandi capimafia, Nicola Femia è uno di quei pentiti che al maxiprocesso Rinascita Scott il pool di Nicola Gratteri inserisce in corsa nella sua lista testi. Classe ’61, originario di Marina di Gioiosa Ionica, feudo del clan al quale era di fatto aderente, le sue rivelazioni – inedite rispetto al narrato di altri pentiti – aggravano, nell’ottica accusatoria, la posizione dell’ex parlamentare di Forza Italia e illustre penalista calabrese Giancarlo Pittelli.

La carriera criminale

Nicola Femia

Incalzato dal pm Antonio De Bernardo, Femia spiega, in esordio di deposizione, la sua carriera criminale, iniziata nel 1976 durante la guerra tra i Mazzaferro e gli Aquino, per l’egemonia su Marina di Gioiosa. «Il mio primo omicidio lo commisi a quindici anni – racconta – e per questo delitto scontai solo un anno e mezzo. Fui assolto grazie ad alcuni testimoni compiacenti». In carcere fino al 1982, una volta tornato libero si trasferì nel Cosentino, a Santa Maria del Cedro, trafficando droga. Rientrato in cella e di nuovo scarcerato nel 1984, rimase libero fino al 1991. Da qui in avanti, un via vai dalle patrie galere, in ragione del suo coinvolgimento in diverse grandi operazioni antimafia e anti-narcotraffico. Trasferitosi in Emilia Romagna, si mise in affari nel settore delle slot machine, finito in nuovi guai giudiziari nel 2013, grazie all’operazione Black Monkey, nel 2017 decise di avviare la collaborazione con la giustizia: «Ero stanco – dice Femia – e volevo cambiare vita».

Il primo incontro

Rispondendo al pm: «Incontrai l’avvocato Pittelli tra gennaio e febbraio 2009 – spiega –. L’ho conosciuto da libero, a casa sua, perché accompagnato dall’avvocato Nocera, che diceva di aver giocato a biliardo con lui. Dovevo fare un appello a Catanzaro, dopo una condanna davanti al Tribunale di Paola. Sapevo che Pittelli era uno dei migliori avvocati e per questo mi rivolsi al lui. Già nel carcere si parlava che era un avvocato bravo, che aveva amicizia con i magistrati. Vi posso garantire che la voce nelle carceri era questa. Una volta, un signore, nel ’95-’96, un certo Giuseppe Anania, mi disse che era bravo e aggiustava i processi, perché aveva amicizia con dei magistrati. Oltre alla parcella professionale, gli si dava dei soldi anche per altro. Pittelli prese la nomina e gli diedi come acconto 25.000 euro, in banconote da 500 euro, che avevo in tasca. Io allora problemi di soldi non ne avevo e gli feci così capire che poteva risolvermi il problema».

Le parole di Antonio Mancuso

Antonio Mancuso

Secondo Nicola Femia (assistito dall’avvocato Annalisa Pisano), Pittelli rimase soddisfatto di quella somma: «Ha detto che vedeva cosa poteva fare, rassicurandomi che “c’erano possibilità”. L’acconto era una mia iniziativa, per fargli capire che poteva “aggiustare” il processo e problemi di soldi non ne avevo». Altri 25.000 euro – racconta il pentito – sarebbero stati consegnati a Giancarlo Pittelli dal figlio di Nicola Femia, mentre questi si trovava detenuto a Spoleto. Sarebbe stato proprio nel penitenziario umbro, che l’ex “riservato” di Vincenzo Mazzaferro avrebbe conosciuto Antonio Mancuso di Limbadi in un periodo in cui – su presunta imbeccata del suo difensore – avrebbe simulato una malattia per farsi trasferire in un centro clinico a Pisa. «Pittelli è devoto nei miei confronti perché è grazie a noi che è lì, perché lo abbiamo portato avanti politicamente», avrebbe detto Mancuso a Femia durante la comune detenzione. E poi, a dire di Femia, Mancuso avrebbe aggiunto che «Pittelli è uno che se dà una parola, la mantiene. Siccome è uno devoto a me, io non lo pago nemmeno». In pratica, riferisce il collaboratore, Pittelli sarebbe stato lo storico avvocato dei Mancuso, che avrebbero votato e fatto votare per lui quando si candidò al Parlamento. «Mancuso – spiega ancora Femia – mi disse che gli avrebbe mandato una imbasciata e che Pittelli le amicizie con i magistrati, per aggiustare i processi, ce le ha. Quando poi sono uscito dal carcere, incontrai a Roma Pittelli e gli diedi altri 25.000 euro, di mia volontà. Mi disse che c’era la possibilità di aggiustare il processo e gli servivano altri 50.000 euro di acconto. Poi mi portò i saluti di Antonio Mancuso, che mi avrebbe raccomandato. Più avanti gli portai i 50.000 euro. I miei rapporti con lui sono nelle telefonate acquisite al processo di Bologna in cui io ero imputato».

Il processo andò male

In quel periodo, sempre a dire di Nicola Femia, avrebbe aiutato l’avvocato ed ex parlamentare a vendere una barca. Incontrandolo «più volte» nel suo studio in via della Lupa numero 1, Pittelli poco prima della sentenza lo avrebbe avvisato che «essendo cambiato un giudice la situazione si era complicata». Ed in effetti il processo andò male per l’ex uomo dei Mazzaferro: ottenne, rispetto ad una condanna in primo grado a 30 anni di reclusione, un lieve sconto con una rideterminazione della pena a 23 anni e 8 mesi. Poi ci fu la Cassazione: «Seguii altre strade, che ho raccontato ad altri magistrati, qui Pittelli non c’entra. La sentenza fu annullata e così ci fu un nuovo appello, all’epilogo del quale ho avuto un ulteriore lieve sconto. Riguardo la prima sentenza d’appello, Pittelli mi disse che era stato sfortunato, perché il presidente era un giustizialista ed era andata via la dottoressa Chiaravalloti, con cui aveva amicizia, ed aveva il papà in politica. Non mi restituì mai soldi, né mi diede mai una fattura».

Il controesame di Staiano

A seguire, il controesame dell’avvocato Salvatore Staiano, collegio difensivo di Pittelli, che con le sue domande scandaglia alcune incongruenze rispetto al racconto di Nicola Femia. «Come faceva a sapere, Antonio Mancuso, che sarebbe finito al centro clinico di Pisa?», domanda il penalista. La risposta: «Lo sapeva da Pittelli, immagino». Svela Staiano: «Lei sul punto è radicalmente smentito da una documentazione della casa di reclusione di Spoleto, la cui direzione sanitaria aveva disposto il ricovero di Mancuso con urgenza». Staiano: «Quando fu scarcerato, ci fu un’azione illecita di Pittelli?». Il pentito: «Io sono uscito perché non esisteva reiterazione del reato né pericolo di fuga». Tra le altre domande: «Quando su Pittelli rende le sue prime dichiarazioni all’autorità giudiziaria di Catanzaro?». Femia: «Nel 2020. A Salerno nel 2017». «A Bologna e in qualche udienza pubblica ha mai parlato di Pittelli? Lei afferma a verbale “Sono sicuro di no”». La replica del collaboratore: «È così». E Staiano: «Abbiamo un testimone autorevole che dice il contrario e lo presenteremo».

Il controesame di Contestabile

In conclusione, il controesame dell’avvocato Guido Contestabile, altro difensore di Pittelli: «Lei è sicuro di non aver reso interrogatori alla Procura di Catanzaro nel gennaio 2017? È corretto se le dico che la prima volta che parla della presunta corruttela che coinvolge Pittelli risale al 20 luglio 2017, alla Procura di Catanzaro e Bologna?». Femia: «Sì». E Contestabile: «Perché allora non parlò di Antonio Mancuso? Aveva un cattivo ricordo allora e ricorda bene adesso?». Il collaboratore: «Perché mi è venuto dopo e l’ho detto». Il difensore: «Quindi di Mancuso la prima volta parla il 28 ottobre 2020? È plausibile che associ Pittelli a Mancuso a quattro anni dalla sua collaborazione?». E Femia: «Quando me ne sono ricordato l’ho detto». L’udienza è quindi proseguita con l’esame di uno dei periti trascrittori del Tribunale.

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