Morte di Tita Buccafusca, la Dda riapre il caso e indaga per omicidio
Moglie di Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”, la donna morì nel 2011 dopo aver ingerito acido muriatico. La notizia è stata data oggi pomeriggio nel corso della trasmissione di LaC “I fatti in diretta”
“Poteva ingerire, volontariamente, una simile quantità di acido muriatico? E’ l’interrogativo attorno al quale ruota la nuova inchiesta istruita dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro sulla morte di Tita Buccafusca. Nata a Nicotera il 7 febbraio del 1974, all’anagrafe era Santa. Per tutti, sin da bambina, invece, Tita. Il pm antimafia Camillo Falvo, disponendo una serie di quesiti sul quadro emerso dall’esame autoptico, indaga sull’ipotesi di omicidio”.
La notizia è stata data questo pomeriggio nel corso della trasmissione di LaC “I fatti in diretta”, dedicata anche al caso di Maria Chindamo, la donna di Laureana di Borrello scomparsa lo scorso 6 maggio tra Limbadi e Nicotera, e al giallo relativo alla morte di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, i due netturbini assassinati per caso il 24 maggio del 1991 a Lamezia Terme.
Sposa di Pantaleone Mancuso alias “Scarpuni”, ritenuto tra i boss della ’ndrangheta più potenti e sanguinari, oggi recluso in regime di 41bis, Tita Buccafusca spirò il 18 aprile 2011 all’ospedale di Polistena. Due giorni prima aveva ingerito dell’acido muriatico nella sua casa di Nicotera Marina.
La sua morte, secondo l’ipotesi al vaglio della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, dopo quasi un lustro dall’archiviazione dell’inchiesta per istigazione al suicidio, sarebbe strettamente correlata alla fuga della donna dalla casa coniugale, un mese prima, per chiedere riparo e protezione allo Stato. La moglie del boss ad un passo, allora, dal divenire una testimone di giustizia.
Era la mattina del 14 marzo 2011 quando Tita, con in braccio il suo bambino, chiese riparo alla Stazione carabinieri di Nicotera Marina. Due giorni prima, a San Calogero, era stato assassinato il supernarcos Vincenzo Barbieri, il re della cocaina importata dai cartelli sudamericani. Tita, bussando ai carabinieri, disse: «Si ammazzano come cani…». E poi: «Andate a casa e prendete il Pc prima che sparisce…».
I carabinieri la trasferirono nella sede del Comando provinciale di Catanzaro. Tita, nel suo atto di ribellione, telefonò al marito, a cui disse che non si sarebbero più rivisti, che lei collaborava con la giustizia e che lui doveva fare altrettanto. Tita non firmò, però, il verbale. Era stanca, stremata, non aveva neppure assunto il farmaco che giornalmente la sosteneva nella lotta disperata contro un’esistenza che non le apparteneva più.
Il giorno dopo, al risveglio, era più consapevole, era pronta a firmare, mentre l’Arma e i magistrati di Catanzaro si erano tutti radunati attorno a lei, assistita anche da personale medico psichiatrico, alla luce di un passato segnato da una “reazione paranoide acuta”. Ma Tita non era ancora pronta. Ciò mentre i magistrati si riunirono tutti nell’abitazione del procuratore Vincenzo Antonio Lombardo per studiare le soluzioni possibili: se non avesse firmato per entrare nel programma speciale di protezione, Tita sarebbe tornata dalla famiglia o sarebbe stata accompagnata in una struttura di assistenza sociale.
Gli altri ufficiali dell’Arma rientrarono in fretta incaserma e le diedero il verbale. Duepagine: lasciò a metà la firma sulla prima, non vergò la seconda.
Un ufficiale del Ros, a quel punto, in modo «chiaro e fermo» – si legge in una relazione alla Dda – la invitò a compiere una scelta perché in caso contrario avrebbe dovuto lasciare quel presidio dell’Arma, non essendoci i presupposti per il programma di protezione. Tita chiese quindi di parlare con la sorella. Una telefonata dai toni pacati e affettuosi, al termine della quale disse ai carabinieri: «Non firmo, non firmo proprio». Furono chiamati così la sorella e il cognato, che a sera ormai inoltrata del 15 marzo 2011 arrivarono a Catanzaro per prendere Tita e riportarla a casa dal marito, Pantaleone Mancuso.
Lo stesso Pantaleone Mancuso che un mese dopo, il 16 aprile, bussò ai carabinieri di Nicotera Marina spiegando che la moglie aveva ingerito acido muriatico.