“Costa pulita”, le mire dei Mancuso sul porto di Vibo Marina
Il clan di Limbadi voleva costringere l'imprenditore Francesco Cascasi a cedere il 50 per cento di una costituenda società per la gestione di un pontile.
Dalle attività a cui i clan della costa (gli Accorinti di Briatico, gli Il Grande di Parghelia e i La Rosa di Tropea) finiti nelle maglie dell’inchiesta “Costa pulita” erano dediti (estorsione, influenze sugli appalti pubblici e interessi provenienti dal turismo), si evince come le stesse consorterie avessero nei fatti costituito una holding del crimine che operava sotto la benevola protezione della potente famiglia Mancuso di Limbadi.
Ciò è evidente nelle gravi vessazioni subite dall’imprenditore Francesco Cascasi e riportate nelle carte della stessa inchiesta disposta dalla Dda di Catanzaro e coordinati dai sostituti procuratori Camillo Falvo e Pierpaolo Bruni.
Una tentata estorsione messa in atto ai danni del patron della Eurocontrol risale al 2001 e riguarda la realizzazione di un pontile a Vibo Marina su cui le organizzazioni criminali avevano puntato le loro mire. A recarsi dall’imprenditore di Vibo Marina furono Nazzareno Colace, Giuseppe Lo Bianco e Pantaleone Mancuso, che chiesero “con tono minaccioso, rafforzato dalla presenza di Mancuso, a Cascasi di entrare a far parte, al 50 per cento, nell’ambito di una società che lo stesso stava costituendo e avente per oggetto sociale proprio la gestione di un pontile nel porto di Vibo Marina. Richiesta che lo stesso avrebbe dovuto assecondare a titolo gratuito e comunque senza alcuna conferimento nell’ambito della costituenda società”.
Colace arrivò persino a minacciarlo del fatto che, “qualora non avesse aderito a tale richiesta, non avrebbe ottenuto i necessari provvedimenti autorizzativi per la gestione del pontile”, evidenziando così l’influenza della cosca sugli apparati amministrativi dello Stato. Gli stessi sarebbero stati gli autori di una serie di intimidazioni volte a costringere la vittima predestinata “a cedere loro il 50 per cento delle quote della costituenda società a titolo gratuito, non riuscendo nel loro intento per la ferma opposizione di Cascasi”.
Questi avrebbe subito una tentata estorsione in un’altra circostanza, questa volta ad opera di Cosmo Michele Mancuso, boss dell’omonima cosca, e Giuseppe Lo Preiato che chiedevano con insistenza di entrare nella neo costituenda società. Anche loro gli facevano presente che avrebbero fatto leva sugli apparati amministrativi per agevolare le concessioni necessarie. Dalle deposizioni rese da Cascasi il 14 febbraio scorso, quindi, si desume ulteriormente quello che gli inquirenti definiscono “lo storico legame di cointeressenza e di solidarietà ‘ndranghetistica tra Panteleone Mancuso (detto “Scarpuni”) e lo stesso Nazzareno Colace “a far data dal 1997, allorquando Cascasi fu indotto a lasciare l’attività lavorativa che egli svolgeva per il tramite della ditta Cadi presso la società Nostromo, proprio sulla scorta delle pressioni esercitate da Mancuso e Colace. A comprova, poi, della capacità della famiglia Mancuso ed in particolare della frangia riconducibile a Pantaleone (“Scarpuni”) di condizionare l’andamento amministrativo di pratiche come quella richiesta da Cascasi, vi è il coinvolgimento nelle attività investigative proprio del comandante della Capitaneria di Porto, Luigi Piccioli, nonché dell’ex consigliere comunale Giancarlo Giannini.
L’ex amministratore, in particolare, è considerato “uomo particolarmente vicino a Nazzareno Colace”. Insomma, un malefico intreccio tra mafia, politica e apparati dello Stato.