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Rinascita Scott: l’operatività del clan Lo Bianco-Barba a Vibo nella sentenza del giudice

Nelle motivazioni il gup distrettuale di Catanzaro ritiene pienamente attiva la storica consorteria mafiosa della città capoluogo e spiega l’importanza delle riunioni intercettate per arrivare alle condanne

Rinascita Scott: l’operatività del clan Lo Bianco-Barba a Vibo nella sentenza del giudice

Certificano dopo “Nuova Alba” l’operatività del clan Lo Bianco-Barba a Vibo Valentia, le motivazioni della sentenza in abbreviato di Rinascita-Scott depositate dal gup distrettuale di Catanzaro Claudio Paris. Ben 851 pagine per spiegare la decisione presa nei confronti di 91 imputati. « La ‘ndrina Lo Bianco-Barba opera nella città dì Vibo Valentia, con competenza sul centro e sulle zone ad esso limitrofe. La ‘ndrina ha assunto il predominio negli anni ’80 – spiega il giudice – grazie al concomitante declino della ‘ndrina Pardea. Si è dedicata al racket delle estorsioni e dell’usura cercando di espandersi verso altri territori ed in particolare verso il comune di San Gregorio d’Ippona, derivandone una sanguinosa faida con la cosca Fiaré-Razionale-Gasparro poi ricomposta dall’intervento dei Mancuso». Il giudice ricorda quindi che al termine dell’operazione “Nuova Alba” – scattata nel febbraio 2007 – è stata riconosciuta a Vibo Valentia di una cosca denominata “Lo Bianco”, composta da una società maggiore e da una società minore, con a capo Carmelo Lo Bianco classe ‘32 detto “Piccinni” ed Enzo Barba, detto “Il Musichiere”e Raffaele Franzè detto “Lo Svizzero” nel ruolo di contabile». Carmelo Lo Bianco e Raffaele Franzè sono deceduti. Venendo all’attualità, sul gruppo dei Lo Bianco hanno riferito una nuova generazione di collaboratori di giustizia, da Andrea Mantella a Bartolomeo Arena, da Michele Camillò a Gaetano Cannatà, tutti ritenuti dal gup attendibili. [Continua in basso]

L’intercettazione con protagonista Mommo Macrì

Domenico Macrì

Per il giudice, però, anche un’intercettazione in cui a parlare è Mommo Macrì, 38 anni (condannato a 20 anni di reclusione) rileva particolarmente per provare l’operatività e l’esistenza del clan Lo Bianco. «Una conversazione già di per sé sola straordinariamente probante – rimarca il gup in sentenza – in relazione alla perdurante attività del gruppo Lo Bianco: si tratta di un dialogo tra Macrì Domenico (uno dei vertici della cosca dei Pardea, detti Ranisi) captato il 4 febbraio 2018 nel quale si discorre del recente ferimento di un custode del cimitero di Vibo Valentia, che il Macrì (il cui rilievo criminale emergerà nel prosieguo in tutta la sua evidenza) finge di ritenere riconducibile alla cosca Lo Bianco (mentre ne è lui stesso il vero responsabile), con la quale – occorre precisare – i rapporti sono ormai deteriorati tanto da aver costituito con il suo gruppo un “Corpo rivale”. Mommo Macrì è stato condannato a 20 anni di reclusione.

La “mangiata” del 25 gennaio 2018

Antonio Lo Bianco

E’ un episodio recente, che risale a soli quattro anni fa, avvenuto a Vibo Valentia e di cui si occupa ora con un apposito capitolo il giudice in sentenza. «Si tratta di un pranzo avvenuto a casa di Lo Bianco Antonio (cl. ’48) sita in contrada Nasari di Vibo, al quale partecipano – scrive il gup – oltre al padrone di casa, Barba Vincenzo, detto il Musichiere, gli odierni imputati Prestia Domenico, Carchedi Paolo, D’Andrea Carmelo, Lo Bianco Nicola, ed ancora Lo Bianco Paolino, Lentini Raffaele e Ceraso Fortunato. Da esso, per i temi trattati, emergono rilevantissimi elementi a carico dei soggetti che vi hanno preso parte (ovvero di coloro che da questi ultimi vengono evocati, segnatamente gli odierni imputati Lo Bianco Leoluca, Franzé Nazzareno, Barba Raffaele, alias Pino Presa, e Tulosai Salvatore), dovendosi sin d’ora anticipare come sia stato del tutto vano il tentativo delle difese – rimarca il giudice in sentenza – di edulcorarne la valenza probatoria, degradando la serietà dei dialoghi captati a mere chiacchiere tra amici annebbiati dai fumi dell’alcol».

Del resto, che «non si tratti soltanto di un pranzo amichevole bensì – in ogni caso – di un incontro tra sodali nel quale confidenza e convivialità non possono comunque pretermettere le gerarchie tra loro esistenti, lo dimostra all’evidenza – sottolinea la sentenza – il fatto che a Lo Bianco Antonio, pur trovandosi in casa propria, non sia minimamente consentito mettere alla porta il ben più giovane Prestia Domenico, dal quale pure si sente profondamente offeso, potendo soltanto Enzo Barba, il Musichiere, prendere una tale decisione». [Continua in basso]

Vincenzo Barba

Soprattutto, nel corso del dialogo i commensali si soffermano «sulle doti di ‘Ndrangheta e su quelle conferite in carcere: in particolare, secondo il racconto del D’Andrea, che intrattiene i suoi interlocutori grazie – sottolinea il giudice – alla sua profonda conoscenza della materia, tali doti vanno in ogni caso riconosciute all’esterno dai responsabili del locale di riferimento, che devono aver previamente sollecitato o comunque autorizzato il conferimento mediante apposite imbasciate; solo in tal caso la dote potrà essere riconosciuta all’esterno, e sempre che l’interessato non appena uscito dal carcere si presenti al cospetto dei propri referenti in un termine anch’esso predefinito».

Proprio questa problematica ha caratterizzato «le doti conferite ai sodali Bognanni Francesco e Franzè Nazzareno, alias Paposcia, per le quali non era stato chiesto il preventivo benestare dei soggetti menzionati nella loro copiata (nel caso di specie D’Andrea Carmelo, Enzo Barba e Lo Bianco Leoluca, i primi due entrambi presenti alla conversazione)».

La vicenda viene in particolare introdotta da «Lo Bianco Nicola, indispettito proprio dal fatto che in tal caso il loro gruppo, cui spettava il benestare in relazione alla dote conferita al Bognanni da personaggi dell’area cosentina (si fa in particolare riferimento a Michele Di Puppo), era stato invece “bypassato” (“superato”) dal riconoscimento effettuato dall’odierno imputato Camillo Domenico cl. ’41, appartenente al diverso gruppo dei Pardea-Ranisi, per intercessione del già menzionato Franzé Raffaele (alias lo Svizzero, zio del Bognanni e di Franzé Nazzareno, Paposcia) senza che giungesse alcuna preventiva imbasciata al riguardo». [Continua in basso]

Gli incontri del 2017 per l’elezione di una carica apicale

«Sempre in casa di Lo Bianco Antonio, alcuni mesi prima, e precisamente in data 28 agosto 2017, era avvenuto un altro incontro cui avevano preso parte, altresì – si legge in sentenza – Barba Vincenzo, Franzè Nazzareno e D’Andrea Carmelo». In tale incontro si sarebbe discusso «della nomina di un sodale ancora da individuare ad una certa carica apicale, ancorché soltanto ad interim, in attesa che riacquistassero la piena agibilità i due esponenti a ciò maggiormente titolati: Lo Bianco Paolino e Catania Filippo, entrambi in quel frangente ancora sottoposti a misure di prevenzione». Si discuteva poi «delle modalità più opportune per riunirsi, evitandouna seduta plenaria, essendo assai meno rischioso convocare soltanto gli “anziani”, che poi a loro volta riferiranno agli altri sodali».

Al termine del processo con rito abbreviato, Raffaele Giuseppe Barba, detto Pino Presa, è stato condannato a 12 anni, Domenico Camillò (cl. ’41) a 15 anni e 4 mesi, Paolo Carchedi a 12 anni; Carmelo D’Andrea a 13 anni e 6 mesi, Nazzareno Franzè, detto Paposcia, a 12 anni, Leoluca Lo Bianco (U Rozzu) a 12 anni, Nicola Lo Bianco a 10 anni e 8 mesi, Domenico Prestia a 10 anni e 8 mesi, Salvatore Tulosai a 12 anni.  

Paolino Lo Bianco, Filippo Catania, Antonio Lo Bianco, Vincenzo Barba, Francesco Bognanni e Fortunato Ceraso si trovano invece sotto processo dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia con il dibattimento che si sta svolgendo nell’aula bunker di Lamezia Terme.

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