Pressioni su Emanuele Mancuso, ecco le ragioni delle condanne
Depositate le motivazioni della sentenza. Oltre che della latitanza di Giuseppe Mancuso, il processo si è occupato del tentativo di far desistere il rampollo del clan – parte civile contro i familiari – dalla collaborazione con la giustizia
Sono state depositate dal Tribunale di Vibo Valentia (presidente Tiziana Macrì, giudici a latere Laerte Conti e Roberta Ricotta) le motivazioni della sentenza emessa il 31 gennaio scorso e che mira a far luce sulle responsabilità legate alla latitanza di Giuseppe Mancuso, 35 anni, di Nicotera, figlio del boss della ‘ndrangheta Pantaleone Mancuso, detto “l’Ingegnere”, e sulle pressioni per far recedere Emanuele Mancuso (fratello di Giuseppe) dal collaborare con la giustizia. Nel procedimento penale, il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso figurava quale parte civile (assistito dall’avvocato Antonia Nicolini) contro i suoi stessi familiari (padre, madre e sorella).
Questa la sentenza: 1 anno e 8 mesi per Pantaleone Mancuso, di 61 anni, detto “l’Ingegnere” (padre di Giuseppe ed Emanuele, per lui il pm aveva chiesto la condanna a 3 anni e 6 mesi); assoluzione per Giuseppe Pititto, di 30 anni, di Mileto (assoluzione la richiesta del pm); 1 anno e 8 mesi per Rosaria Del Vecchio, di 57 anni, di Nicotera (2 anni e 6 mesi per lei la richiesta del pm); 1 anno e 8 mesi per Giovanna Del Vecchio, di 54 anni, di Nicotera (madre di Giuseppe ed Emanuele Mancuso e moglie di Pantaleone Mancuso detto “l’Ingegnere”, 3 anni e 6 mesi per la richiesta del pm); assoluzione per Antonino Maccarone, di 35 anni, di Limbadi (assoluzione la richiesta del pm); assolta Desiree Mancuso, di 30 anni, di Nicotera (sorella di Emanuele Mancuso, 2 anni e 6 mesi per lei la richiesta del pm); 5 anni e 6 mesi per Giuseppe Mancuso, di 36 anni, di Nicotera (fratello di Emanuele, 7 anni di carcere la richiesta del pm). [Continua in basso]
L’induzione a non rendere dichiarazioni e la violenza privata
Gli elementi probatori su cui si fonda il riconoscimento della responsabilità penale di Rosaria Del Vecchio, Giovannina Del Vecchio e Pantaleone Mancuso, per il Tribunale «sono costituiti essenzialmente dalle dichiarazioni di Emanuele Mancuso, dalle chat estrapolate dal cellulare in uso a Pantaleone Mancuso e dalle diverse intercettazioni telefoniche e ambientali. Iniziando dalle dichiarazioni della persona offesa, Emanuele Mancuso raccontava che, a seguito dell’inizio della collaborazione, aveva un colloquio in carcere con la Chimirri; durante il colloquio le illustrava la possibilità di andare via e di iniziare una nuova vita tranquilla a seguito della sua scelta di collaborare, ma la stessa si mostrava contrariata. La Chimirri lo informava che gli agenti le avevano sequestrato un foglietto su cui erano annotati i nominativi di due avvocati che lo avrebbero aiutato a dichiarare la sua infermità di mente al fine di interrompere il percorso di collaborazione e “annullare quello che aveva già dichiarato”. Tale dichiarazione risulta confermata dall’intercettazione della conversazione avvenuta in carcere tra Emanuele Mancuso e Nency Chimirri».
Nel proseguo del colloquio la Chimirri rassicurava Emanuele Mancuso sulla possibilità di «cambiare vita senza intraprendere il percorso di collaborazione. In particolare, la compagna lo informava che la zia, Del Vecchio Rosaria, era disposta a vendere tutti i terreni di sua proprietà per consentirgli di trasferirsi in Spagna ed aprire un bar, per poter cambiare vita insieme a lei e alla bambina. A seguito di quel colloquio, la Chimirri gli inviava diverse lettere e diverse foto che ritraevano la figlia appena nata. Il contenuto delle lettere e delle frasi scritte sul retro delle foto avevano sempre lo stesso tenore: “ti amo solo se tu vuoi, ce ne andiamo solo se tu vuoi». La finalità per i giudici sarebbe stata quella di far recedere Emanuele Mancuso dal collaborare con la giustizia. «Il teste ricordava, in particolare, una foto della figlia su cui era scritto “Baby Boss” ed un’altra che ritraeva la figlia con suo fratello Mancuso Giuseppe. Durante quel periodo la Chimirri gli aveva riferito di abitare a Nicotera con la famiglia Mancuso. Raccontava che in un colloquio successivo avuto con la Chimirri, avvenuto nel settembre del 2018, la stessa gli chiedeva se avesse reso dichiarazioni in merito agli omicidi commessi dal padre e dal fratello. Tale dichiarazione risulta confermata dall’intercettazione telefonica avvenuta tra Mancuso Emanuele e Nency Chimirri».
Emanuele Mancuso riferiva poi che mentre si trovava nel braccio comune di Paliano aveva avuto circa tre colloqui con i propri familiari: «con la madre, con la zia e con la sorella. Durante un colloquio con la madre, Del Vecchio Giovannina Ortensia, la stessa cercava di convincerlo a interrompere la collaborazione e a ritrattare, dicendogli: “tu lo sai che sei malato, tu lo sai che ti sei inventato tutto”, prospettandogli che sarebbe rimasto da solo». Anche nei colloqui con la zia, Del Vecchio Rosaria Rita, e con la sorella, Desiree Mancuso, l’oggetto della conversazione verteva sempre sulla non condivisione da parte della sua famiglia della scelta di collaborare. [Continua in basso]
Il tentato omicidio di Domenic Signoretta a Ionadi
I giudici in sentenza affrontano anche tale episodio delittuoso per alcuni risvolti. «Tra il 19 ed il 21 maggio 2019 Emanuele Mancuso apprendeva del tentato omicidio di Domenic Signoretta, braccio destro del padre e del fratello. A seguito ditale notizia si spaventava tanto da non riuscire a dormire per due giorni. Tale preoccupazione era dovuta al fatto che “chi voleva colpire Signoretta voleva colpire pure mio fratello. Visto che avevo avuto le foto della bambina, con mio fratello in braccio, e la Chimirri faceva avanti e indietro, tra Capistrano e Nicotera, in un agguato poteva caderci pure mia figlia o la Chimirri stessa”.
Unitamente alla circostanza che non stava bene all’interno dell’abitazione, che non riusciva sempre ad uscire, Emanuele Mancuso contattava i referenti per chiedere di essere condotto in carcere. Non ottenendo quanto voluto chiamava la madre per modificare il precedente accordo. Nello specifico, il teste riferiva di aver prospettato alla madre la volontà di interrompere la collaborazione e tornare in carcere, a patto che con la Chimirri e la figlia si trasferissero vicino al carcere dove sarebbe andato; la madre accettava l’accordo ed unitamente a Maccarone si metteva in viaggio per raggiungere il sito protetto dove si trovava il figlio».
In attesa dell’arrivo della madre, però, Emanuele Mancuso veniva prelevato dal Servizio Centrale e trasferito in altra località; provava allora a comunicare con la madre ma il telefono gli veniva sequestrato. A seguito di tale episodio rientrava in carcere in quanto erano giunti due aggravamenti della misura e da quel momento interrompeva i rapporti con la madre». [Continua in basso]
Il collaboratore Cossidente
Nel corso del processo è stato ascoltato pure il collaboratore di giustizia lucano, Antonio Cossidente, detenuto in un determinato lasso temporale con Emanuele Mancuso nel carcere di Paliano.
«Raccontava che Emanuele Mancuso – scrivono i giudici in sentenza – gli aveva confidato di aver scelto di collaborare con la giustizia principalmente per cambiare vita e per dare un futuro diverso alla figlia, “un ambiente sano e non in un ambiente di ‘ndrangheta perché lui dice “io da quando sono nato, ho mangiato solo pane e ‘ndrangheta, soldi, droga, omicidi, affari“. Cossidente riferiva poi che quando Emanuele Mancuso tornava dai colloqui con la madre, la compagna o la zia Rosaria oppure quando riceveva le lettere lo vedeva agitato e nervoso; Emanuele gli aveva raccontato che ogni volta lo esortavano a ripensarci dicendogli: “Pensaci bene, perché se tu vuoi vedere la bambina, devi tornare indietro, te ne vai in un altro istituto, ti mattiamo un altro avvocato, magari facciamo fare qualche perizia che non stai bene”.
La qualificazione giuridica
Emanuele Mancuso gli aveva riferito di essere convinto che dietro alle pressioni della madre e della Chimirri ci fosse “la regia” del padre e del fratello. Inoltre era convinto che la famiglia lo facesse anche per una questione di onore». Per il Tribunale è dunque provato il reato di intralcio alla giustizia che mira a tutelare la spontaneità del comportamento processuale della persona informata sui fatti, la quale potrebbe astenersi dal rendere dichiarazioni. Per i giudici, le varie condotte poste in essere – direttamente o tramite le azioni della Chimirri – da Del Vecchio Rosaria, Del Vecchio Giovannina Ortensia e Mancuso Pantaleone integrano il reato contestato nella fattispecie tentata. «Ed invero, la decisione di Emanuele Mancuso di interrompere il percorso di collaborazione non sembra essere conseguenza diretta delle pressioni ricevute dai familiari quanto, piuttosto, di una serie di dinamiche estranee alla vicenda. Come riferisce lo stesso Mancuso Emanuele, in quel periodo stava male. Inoltre, lo stesso ha precisato di aver detto espressamente alla madre che non avrebbe smentito quello che aveva già dichiarato. Pertanto, considerato che la scelta di Mancuso Emanuele non è conseguenza diretta dell’induzione a non rendere dichiarazioni attuata dai familiari, quanto piuttosto frutto di una decisione autonoma e indipendente – anche alla luce dell’intenzione del collaboratore di non ritrattare quanto già dichiarato – deve ritenersi che l’evento tipico della fattispecie risulta essere causalmente scollegato dalle condotte sopra descritte». Resta però confermata l’aggravante mafiosa.
Cade la violenza e la minaccia
Alcuni comportamenti dei familiari di Emanuele Mancuso, una volta rientrato nel programma di protezione, per il Tribunale non sono idonei «ad essere qualificati quali violenza o minaccia, ovvero offerta o promessa di denaro o altra utilità, come richiesto dalla fattispecie incriminatrice. Appare che la famiglia – evidenziano i giudici – si sia determinata ad attuare una nuova strategia nei confronti del collaboratore, volta ad allontanare lo stesso da tutta la famiglia, screditandolo ed isolandolo, così da neutralizzare la sua credibilità e quindi le sue dichiarazioni».
Riguardo, invece, le condotte contestate a Desiree Mancuso, il Tribunale ha ritenuto «che dagli elementi probatori emersi in sede dibattimentale, non sia stata raggiunta la prova della sua responsabilità penale».
Giuseppe Mancuso
Per i giudici è infine provata la responsabilità di Giuseppe Mancuso (con precedenti per sequestro di persona a scopo di estorsione), fratello di Emanuele, per il reato di evasione dagli arresti domiciliari venendo catturato nel novembre 2019 in un casolare di Zaccanopoli con delle armi (provata quindi anche la responsabilità per il reato di ricettazione) ponendosi così fine alla sua latitanza. Ma lo stesso viene assolto dal coinvolgimento in ordine al tentativo di intralciare la giustizia convincendo il fratello a non collaborare. In tal senso, per i giudici, «non vi sono elementi probatori». Confermata, invece, la penale responsabilità per un episodio di tentata violenza privata. «La frase minacciosa “vedi ma ti ricogli, sinnò fai a ‘fine dii ‘altri”, unitamente alle offese proferite, costituisce atto idoneo e diretto a costringere il fratello Mancuso Emanuele – spiegano i giudici – a non intraprendere il percorso di collaborazione. Circostanza quest’ultima appresa, come riferito dallo stesso Mancuso Giuseppe, dalla Polizia penitenziaria».
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