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‘Ndrangheta: il boss Francesco Mancuso resta in carcere

La Cassazione respinge il suo ricorso. Si trova attualmente sotto processo a Vibo nell’ambito dell’inchiesta Petrol Mafie

‘Ndrangheta: il boss Francesco Mancuso resta in carcere
Nel riquadro Francesco Mancuso
Francesco Mancuso

Resta in carcere Francesco Mancuso, 65 anni, detto “Tabacco”, di Limbadi. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto il ricorso dello stesso avverso la decisione del Tribunale del Riesame di Catanzaro del giugno dello scorso anno. Viene così confermata l’ordinanza di custodia cautelare nell’ambito dell’operazione “Petrol Mafie”, che vede Francesco Mancuso a giudizio dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia con l’accusa di associazione mafiosa e intestazione fittizia. La Suprema Corte ricorda quindi che Francesco Mancuso era già stato riconosciuto, in via definitiva (processo Dinasty), partecipe al “locale” di ‘ndrangheta di Limbadi e quindi il giudizio di gravità indiziaria in relazione all’attualità è stato fondato sulle dichiarazioni dei collaboratori Emanuele Mancuso (nipote dello stesso Francesco Mancuso in quanto figlio del fratello Pantaleone, detto “l’Ingegnere”) e Bartolomeo Arena, concordi nell’indicarlo come soggetto partecipe, e con posizione di rilievo, al sodalizio mafioso, seppur in contrasto con altri sodali della medesima famiglia Mancuso. Inoltre Francesco Mancuso nell’inchiesta Petrol Mafie viene ritenuto il dominus di un’attività commerciale, fittiziamente intestata a Rosamaria Pugliese, nel settore dei prodotti petroliferi, e per l’accusa si sarebbe rivolto per la fornitura del carburante ai fratelli D’Amico di Piscopio «titolari di società controllata dalla cosca Mancuso, che tramite essa aveva investito nel settore ingenti somme di danaro. Veniva quindi ritenuta la gravità indiziaria – sottolinea la Cassazione – anche in relazione alla concorrente fattispecie di intestazione fittizia, funzionale a sfuggire a provvedimenti ablatori, aggravata dalla finalità di agevolare il perseguimento degli interessi della cosca di appartenenza». Tale operazione commerciale, per i giudici della Cassazione, in detto contesto risulta essere «manifestazione del perdurante ed attuale vincolo associativo, mantenuto a prescindere dalla conflittualità personale tra Francesco Mancuso e i suoi parenti di maggior rilievo all’interno della cosca. Il Tribunale del Riesame ha inoltre motivato anche in ordine all’aggravante mafiosa, sul rilievo che l’attività imprenditoriale svolta tramite la società, oggetto dell’intestazione fittizia, riguarda un settore nel quale la cosca di appartenenza era operativa e dunque costituiva uno degli strumenti con i quali il sodalizio realizzava il proprio programma».

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