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Cosa sarebbe stata la malavita vibonese se Totò Mazzeo si fosse pentito

La collaborazione tentata e poi interrotta del gangster allevato da “zio Carmelo Sicarru”. Un mentore per Andrea Mantella, un fratello per Bartolomeo Arena. Rimase un criminale perché la donna che amava non approvò la sua scelta

Cosa sarebbe stata la malavita vibonese se Totò Mazzeo si fosse pentito
Il procuratore Gratteri e nel riquadro Antonio Grillo, alias «Totò Mazzeo»

Se avesse formalizzato e, soprattutto, se poi avesse proseguito la collaborazione con la giustizia, probabilmente la malavita a Vibo Valentia non sarebbe quella che oggi il pool di Nicola Gratteri tiene alla sbarra nel maxiprocesso Rinascita Scott. Perché Antonio Grillo, alias «Totò Mazzeo», prima di spegnersi il 6 febbraio 2018, all’epilogo di una devastante malattia neurodegenerativa, era un gangster urbano il cui prestigio era pari a quello di un vero e proprio boss. [Continua in basso]

Antonio Grillo (detto “Totò Mazzeo”)

Fu egli stesso, ad un certo punto della sua carriera criminale, a raccontare agli inquirenti – «a sommarie informazioni, senza assumere le vesti di collaboratore di giustizia, sebbene ne avesse inizialmente manifestato l’intenzione» – la sua epopea mafiosa. Alcune delle sue rivelazioni, per quasi quindici anni coperte dal segreto istruttorio, oggi vengono disvelate nella discovery del processo per l’omicidio di Filippo Piccione, il geologo vibonese assassinato il 21 febbraio 1993 a Vibo Valentia. E Totò Mazzeo, in quell’agguato, per sua stessa ammissione, ebbe un ruolo decisivo, tanto nella pianificazione quanto nell’esecuzione. «Il commando – raccontava il 20 ottobre del 2007 – era composto da me che guidavo la macchina, che era una Seat Ibiza Bianca che utilizzavamo noi, poi era presente Nicola Lo Bianco, figlio di Sicarru, Sarino, genero dello stesso Sicarru, e Salvatore Lo Bianco “u Gniccu”».
Il suo, quel 20 ottobre 2007, davanti agli uomini dello Stato che aveva sfidato sin dalla metà degli anni ’80 in una Vibo Valentia segnata dalle faide e dalle paura, fu un esordio risoluto: «Mi chiamo Grillo Antonio, sono nato a Vibo Valentia l’8 settembre 1968 e vivo a Vibo Valentia da sempre. Mi sono presentato qui da voi perché ho deciso di collaborare con la giustizia». Indole criminale sin da ragazzino: «Rapine, furti, scippi, estorsioni. Poi – proseguiva – all’età di 16 anni sono rimasto orfano di entrambi i genitori, tant’è che sono stato accolto in casa di Lo Bianco Carmelo del 1945, detto “lo zio Carmelo Sicarru”, cugino dell’omonimo boss di Vibo Valentia, che mi ha scelto in famiglia, crescendomi ed ospitandomi».

Carmelo Lo Bianco (Sicarro)

Anche Carmelo “Sicarru”, deceduto il 9 dicembre 2016 a causa dei suoi disturbi cardiaci, era una figura di primaria grandezza nello scenario ‘ndranghetistico vibonese. «Dopo diversi anni di convivenza a casa di Carmelo Lo Bianco, intorno al 1986, quando avevo circa 18 anni, visto che avevo dimostrato di essere affidabile come criminale, fui affiliato alla cosca Lo Bianco di Vibo Valentia con il grado di picciotto. Da quel momento ho commesso numerosi reati, compresi omicidi, estorsioni e rapine…».

Andrea Mantella

Anche Andrea Mantella, il padrino emergente di Vibo Valentia poi divenuto collaboratore di giustizia, nei suoi verbali alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, ha più volte riferito di «Totò Mazzeo» e del suo ruolo nello scenario criminale vibonese. Figura di raccordo tra i vertici della mala locale e la manovalanza criminale, Antonio Grillo viene rappresentato come un vero e proprio gangster a capo di una banda dedita alle azioni, anche di fuoco. Mantella, che della sua natura criminale ne faceva una questione quasi genetica («il coraggio io l’avevo sin da quando ero nella pancia di mia madre»), maturò come azionista della ‘ndrangheta proprio al fianco di Totò Mazzeo. Diversamente da Bartolomeo Arena, il più recente tra i collaboratori vibonesi: rimasto in tenerissima età orfano del padre Antonio, pezzo da novanta emergente vittima della lupara bianca, fu proprio Totò Mazzeo a svezzarlo al crimine. Per me era come un fratello», disse Arena quando gli fu sottoposta per la prima volta dai pm della Dda di Catanzaro l’effige di Grillo.
Avesse proseguito nella collaborazione con la giustizia, la Vibo Valentia criminale probabilmente non sarebbe stata quella di oggi. Ma perché si fermò? È negli atti non più coperti da segreto della Procura antimafia di Catanzaro l’epilogo di una clamorosa decisione. Aveva una compagna, Grillo, della quale era molto innamorato e che gli diede una creatura. Voleva che la donna approvasse la sua decisione. Ciò non accadde. Tra perdere la famiglia che gli era rimasta e restare un criminale fino alla morte, scelse la seconda.

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