Amicizie, regali e “fratellanze”: così Comune di Vibo e Sovrintendenza avallarono il progetto di Giamborino
L’immobile della mafia sulla strada romana. Il maggiore Manzone continua nel suo esame al maxiprocesso Rinascita Scott: dalle intercettazioni l’intervento del senatore Bevilacqua sul sindaco D’Agostino e un quadro per l’assessore Donato
Qualcuno, al Comune di Vibo Valentia, provò ad opporsi al progetto di Giovanni Giamborino – l’ormai noto immobile della mafia costruito sui resti di un’antica strada romana nel cuore di Vibo Valentia ed a due passi dal locale ospedale – ma le “amicizie” del presunto factotum del superboss Luigi Mancuso gli permisero di superare ogni ostacolo. Rivela nuovi particolari il maggiore dei carabinieri Francesco Manzone, già in servizio al Ros di Catanzaro, teste dell’accusa al maxiprocesso Rinascita Scott. [Continua in basso]
Nelle intercettazioni – spiega l’ufficiale dell’Arma – Giamborino dice che «Nicola Scalamandré e Pasquale Scalamogna (dirigente comunale firmatario di una diffida alla ripresa dei lavori)» erano contrari ad approvare la variante al progetto che aveva presentato al Comune, ma «grazie al senatore Francesco Bevilacqua, il sindaco Nicola D’Agostino fu convinto a rilasciare una concessione edilizia di 450 metri, a fronte di una iniziale di 250». Giovanni Giamborino, rammenta il teste del pm Anna Maria Frustaci, definiva l’allora primo cittadino un «galantuomo», che peraltro lo avrebbe invitato a «fare presto prima che trasferisse la dirigente Adriana Teti ad altro ufficio. L’atto finale di questa vicenda – dice ancora il maggiore Manzone – abbiamo verificato che aveva proprio la firma della dirigente Teti».
L’imputato, peraltro, nelle captazioni aggiungeva che «anche l’assessore Nico Donato aveva ricevuto un regalo e faceva riferimento ad un quadro. Dalle indagini – evidenzia ancora l’ex 007 del Ros – è emerso che Giovanni Giamborino ed il figlio Salvatore fossero appassionati di opere d’arte». La vicenda viene ricostruita in alcune intercettazioni, in particolare una con il boss di San Gregorio d’Ippona «Saverio Razionale, l’altra con il cugino Pietro Giamborino, ex consigliere regionale anche lui imputato in questo processo, a cui riferiva che il merito era soprattutto di Bevilacqua, poi del sindaco». Sempre dalle intercettazioni, spiega il maggiore Manzone, emerge che la procedura sarebbe stata addirittura viziata da un «nulla osta scritto dall’ingegnere Francesco Basile, altro imputato del processo, tecnico di fiducia dello stesso Giamborino, ma firmato dalla dottoressa Simonetta Bonomi, della Sovrintendenza dei Beni archeologici della Calabria».
I vari passaggi della fosca vicenda amministrativa, sottolinea l’ufficiale, trovano riscontro nella mole di documenti acquisita dal Ros e riversati in atti. Più avanti, Giovanni Giamborino avrebbe richiesto anche una seconda variante al progetto, per la quale sarebbe stato necessario un ulteriore nulla osta della preposta Sovrintendenza, «in questo caso quella di Reggio Calabria, nella persona di Patamia Salvatore,che Giovanni Giamborino chiamava “fratellino” perché amico di Ugo Bellantoni, indicato come il “capo della massoneria”, e per diversi anni dirigente dell’Ufficio tecnico comunale di Vibo Valentia».
Nicola D’Agostino, Francesco Bevilacqua (attuale coordinatore regionale di “Coraggio Italia”), Salvatore Patania, Nicola Donato, Simonetta Bonomi e Adriana Teti non sono imputati nel maxiprocesso. La posizione di Ugo Bellantoni è stata invece stralciata all’atto della conclusione delle indagini preliminari.
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