L’immobile della mafia a Vibo sulla strada romana, Manzone: «Ecco chi lo favorì»
L’ufficiale dell’Arma torna in aula al maxiprocesso Rinascita Scott. Solo l’archeologa Maria Teresa Iannelli avrebbe provato a fermare lo scempio. Dal Comune agli uffici ministeriali, tra «amici» e «interventi incestuosi»
L’immobile della mafia nel cuore di Vibo Valentia realizzato sopra una strada romana ed altre vestigia dello straordinario valore storico: un colosso di cemento armato su un terreno gravato da vincoli archeologici apparentemente invalicabili. Com’è stato possibile? Il maggiore Francesco Manzone, già in servizio al Ros di Catanzaro, prosegue il suo esame nell’aula bunker di Lamezia Terme al maxiprocesso Rinascita Scott e – rispondendo alle domande del pm Anna Maria Frustaci – scansiona le strategie edilizie di Giovanni Giamborino, presunto factotum del superboss Luigi Mancuso, proprietario di fatto della neonata costruzione sorta dirimpetto l’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia.
L’immobile della mafia sulla strada romana
Dal 2009 al 2015 – spiega l’ufficiale dell’Arma, ripercorrendo il contenuto delle intercettazioni – Giamborino dovette fare i conti con un osso duro, che «faceva il suo lavoro» e che «rappresentava un problema per lui apparentemente insormontabile», ovvero l’allora responsabile della Sovrintendenza Maria Teresa Iannelli, le cui prescrizioni riuscì ad aggirare anche risalendo l’intera scala gerarchica della stessa archeologa, «arrivando fino a Roma, ovvero alla Direzione generale dello Sviluppo economico che nei suoi dipartimenti aveva le varie Sovrintendenze». Qui ci sarebbe stato un suo «amico intimo – spiega il maggiore Manzone – ovvero, e ce lo dice sempre Giamborino attraverso le intercettazioni, il dottore Alberto Versaci, che lo indirizzò prima al “capo regionale” della Sovrintendenza, Francesco Prosperetti, poi a colei che definiva come il direttore generale “di tutto il Ministero” ovvero Simonetta Bonomi», la quale agganciò una mattina, accompagnandola personalmente con il suo taxi a Saxa Rubra, assieme a Prosperetti, per una intervista a Uno Mattina sui bronzi di Riace. Fu proprio un documento a firma della dottoressa Bonomi (tra l’altro confermata a giugno alla guida della Sovrintendenza del Friuli Venezia Giulia) – secondo quanto spiegato in udienza dal teste – a consentire «a Giamborino di riprendere i lavori».
Il vincolo archeologico
«Per superare il vincolo archeologico inoltre – spiega l’ufficiale dell’Arma – Giamborino coprì la strada romana, facendola scomparire sotto una gettata di cemento», contestualmente – favorito da una serie di «interventi incestuosi» dei pubblici ufficiali del Comune di Vibo Valentia, «amicizie», «conoscenze massoniche», «timbri falsi di persone che lavoravano nell’Ufficio protocollo del Comune di Vibo», sarebbe riuscito non solo a superare i vincoli archeologici ma anche ad «ottenere un aumento della volumetria». Eppure – spiega l’ufficiale dell’Arma – abbiamo un «progetto malato ab origine», che è andato avanti fino all’attualità, perfino «ottenendo l’approvazione della variante al progetto grazie all’interessamento diretto dell’allora sindaco Nicola D’Agostino».
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