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‘Ndrangheta: la sete di vendetta dopo il ferimento del boss Francesco Mancuso

Pino Mancuso avrebbe voluto colpire Domenico Polito, individuato come autore della sparatoria. Mantella accende i riflettori sulle cure mediche a Tabacco prima del ricovero in ospedale

‘Ndrangheta: la sete di vendetta dopo il ferimento del boss Francesco Mancuso
Nei riquadri Francesco Mancuso e Antonio Prenesti

Emergono nuovi retroscena dall’inchiesta “Errore Fatale” che ha portato in carcere il boss di Limbadi Cosmo Michele Mancuso (che si trovava già detenuto per “Costa pulita”), il boss di Zungri Giuseppe Accorinti, Antonio Prenesti di Nicotera (alias “Yo-yò) e Domenico Polito di Tropea. Tutti accusati di concorso nell’omicidio di Raffaele Fiamingo di Rombiolo, alias “Il Vichingo”, e del tentato omicidio del boss Francesco Mancuso di Limbadi, detto “Ciccio Tabacco”. Un personaggio, quest’ultimo, che anche il nipote Emanuele Mancuso (figlio del fratello Pantaloene Mancuso, alias “l’Ingegnere”) conferma agli inquirenti come non andasse d’accordo con gli zii, tanto da creare nei primi anni 2000 un’autonoma articolazione del clan Mancuso impegnata anche in danneggiamenti nei confronti di soggetti già “protetti” dagli zii oppure a compiere azioni intimidatorie nei confronti degli stessi congiunti, prendendo in particolare di mira lo zio Cosmo Michele Mancuso e Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”.  

L’auto utilizzata da Antonio Prenesti, Domenico Polito e Giuseppe Accorinti per portarsi a Spilinga ed aprire il fuoco contro Raffaele Fiamingo e Francesco Mancuso la notte del 9 luglio del 2003, emerge ora dall’inchiesta che era stata rubata il 16 dicembre del 2002 a Spilinga e si trattava di una Fiat Punto. La stessa auto che dalle “dichiarazioni di Orazio Cicerone e Filippo Gentile – scrive il gip – emergeva come gli stessi killer, o altri soggetti del gruppo di Cosmo Mancuso, richiedevano a Cicerone di custodire. L’auto era poi stata sequestrata il 9 agosto 2003 dopo che una lettera anonima, a parere di Cicerone di sospetta provenienza da parte di qualcuno del gruppo di “Tabacco”, che aveva informato la polizia”.  [Continua dopo la pubblicità]

I propositi di vendetta. Le dichiarazioni più interessanti sulle fasi immediatamente successive all’omicidio di Raffaele Fiamingo ed al ferimento di Francesco Mancuso, arrivano dal collaboratore Angiolino Servello di Ionadi il quale all’epoca era uno stretto alleato del boss di Zungri, Giuseppe Accorinti, nel traffico di droga. Proprio da Giuseppe Accorinti, Angiolino Servello racconta infatti di aver appreso che per il fatto di sangue c’era all’epoca chi stava preparando la vendetta: un personaggio di primo piano della famiglia Mancuso, ovvero Pino Mancuso (cl. ’60), detto “Pino Bandera”, fratello maggiore di Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, e fra i principali protagonisti dell’inchiesta “Decollo” contro il narcotraffico internazionale. Pino Bandera era all’epoca inserito, secondo i collaboratori e le risultanze investigative, proprio nell’articolazione guidata dal cugino Francesco Mancuso, detto “Tabacco” (Pino Mancuso assolto però in appello nel processo Dinasty), e quindi anche in netta contrapposizione al proprio fratello Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”, collocato invece nell’articolazione del clan facente capo allo zio Cosmo Michele Mancuso. Pino Mancuso, secondo Servello, avrebbe voluto colpire Domenico Polito di Tropea, individuato come bersaglio proprio perché ritenuto facente parte del gruppo di fuoco che aveva agito sotto le direttive di Cosmo Michele Mancuso.

I medici che hanno curato Mancuso. L’inchiesta “Errore Fatale” non fa tuttavia dormire sonni tranquilli neanche a qualche medico. Esistevano già all’epoca del processo “Dinasty” delle intercettazioni in cui si spiegava che la notte dell’agguato alcuni personaggi vicini al boss Francesco Mancuso avevano portato il ferito in una casa al campo di aviazione di Vibo e qui condotto un medico per curarlo. Cure impossibili, vista la gravità della situazione, senza un ricovero in ospedale che invece Francesco Mancuso voleva evitare per impedire alle forze dell’ordine di capire che oltre a Raffaele Fiamingo (rimasto ucciso), anche lui era rimasto coinvolto nella sparatoria di Spilinga. Sul punto si rivelano importanti ora le dichiarazioni del pentito Andrea Mantella, secondo il quale quella notte insieme a Lele Fiamingo e Ciccio Tabacco si trovava con loro anche Antonio Tripodi dell’omonimo clan di Portosalvo che sarebbe riuscito a scappare dal luogo dell’agguato, “chiamando nella notte Enzo Barba e Paolino Lo Bianco per portare Ciccio Tabacco alla Villa dei Gerani o per farlo visitare da un dottore di quella clinica. Le sue condizioni erano però gravi – ricorda Mantella – e lo hanno portato in ospedale. Questo mi è stato riferito – spiega ancora Mantella – sia da Paolino Lo Bianco che da mio cugino Salvatore Mantella. So che c’era anche Gaetano Comito, braccio destro di Ciccio Tabacco e credo che inizialmente quest’ultimo, ferito, sia stato portato in una sua villetta vicino al campo di aviazione. Tutti abbiamo saputo, tramite Antonio Tripodi, e perchè si diceva nell’ambiente, che a sparare era stato Antonio Prenesti. Si trattava di una frattura interna ai Mancuso”.

Secondo Emanuele Mancuso, infine, anche suo zio Francesco Mancuso in un’occasione gli avrebbe chiesto delle armi per vendicarsi dell’agguato subito. “Quel gran cornuto di Yo-yò è tornato a Nicotera” avrebbe confidato Francesco Mancuso al nipote Emanuele, manifestando così l’intenzione di colpire proprio Antonio Prenesti. Un proposito poi non andato a buon fine, anche perché nel frattempo – ottobre 2003 – scattava l’operazione “Dinasty” proprio contro il clan Mancuso e Ciccio Tabacco veniva arrestato insieme a tutti gli altri vertici della famiglia.     In foto nel riquadro in alto: Francesco Mancuso e Antonio Prenesti. Nel testo dall’alto in basso: Cosmo Michele Mancuso, Domenico Polito, Andrea Mantella ed Emanuele Mancuso

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