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Confisca beni al boss Vallelunga, Cassazione accoglie il ricorso

Sarà necessario un nuovo esame del Tribunale di Vibo per esaminare i rilievi della difesa degli eredi del defunto capoclan di Serra San Bruno

Confisca beni al boss Vallelunga, Cassazione accoglie il ricorso

Si ritorna a Vibo Valentia per l’incidente di esecuzione sulla confisca dei beni appartenuti al boss di Serra San Bruno, Damiano Vallelunga, a capo del clan dei “Viperari” ed ucciso a Riace nel settembre del 2009. La Cassazione ha infatti accolto il ricorso degli avvocati Paola e Francesco Stilo  che rappresentava Teresa Rachiele, moglie di Damiano Vallelunga, ed i figli Mario e Antonio Vallelunga. Ci dovrà quindi essere una ulteriore pronuncia del Tribunale di Vibo sulla richiesta di revoca della confisca con l’ammissione di prove nuove non valutate in precedenza. Fra i beni confiscati, oltre a terreni e conti correnti, anche la casa storica del boss Damiano Vallelunga, già oggetto di un provvedimento di sfratto nel marzo del 2012 eseguito dalla polizia in attuazione di quanto disposto dal Nucleo di supporto per i beni confiscati istituito dalla Prefettura di Vibo Valentia.                       

Damiano Vallelunga per decenni ha rappresentato la massima espressione della ‘ndrangheta vibonese e del Soveratese, con un potere ed un’autorevolezza mafiosa che i pentiti indicano pari a quella di Luigi Mancuso. Damiano Vallelunga, a capo dell’omonimo clan di Serra San Bruno, detto anche dei “Viperari” , è stato ucciso a Riace il 27 settembre del 2009 dinanzi al santuario dei santi Cosma e Damiano. Un delitto che sarebbe stato pianificato dagli esponenti di vertice dei clan Gallace di Guardavalle, Leuzzi di Stignano e Ruga di Monasterace entrati in conflitto con Damiano Vallelunga per la gestione di alcuni appalti milionari nelle Serre calabresi come il business dell’eolico. Damiano Vallelunga non avrebbe permesso a nessuno di entrare nel suo vasto territorio delle Serre per fare “affari”. Avrebbe inoltre pagato con la vita la sua alleanza al boss Carmelo, “Nuzzo”, Novella, che da Guardavalle Superiore si era trasferito in Lombardia con il proposito di formare una nuova struttura di ‘ndrangheta totalmente sganciata dalla “casa madre” calabrese. Un proposito mal visto dai Gallace e dai Ruga, soggetti di vertice dell’intera ‘ndrangheta calabrese che hanno infatti deciso l’omicidio di Novella, freddato poi il 14 luglio 2008 in un bar di San Vittore Olona, nel Milanese, da Antonino Belnome, originario di Guardavalle, a capo del “locale” di ‘ndrangheta di Giussano e con una carriera da calciatore professionista poi stroncata da un grave infortunio.                                            In tale contesto, Damiano Vallelunga avrebbe preso le difese di Alessio Novella, figlio dell’assassinato Carmelo, al fine di salvargli la vita dopo la morte del padre, ma tale scelta, unitamente ad altri motivi, avrebbe indisposto Gallace tanto da decretare la fine pure per il boss dei “Viperari”. I Vallelonga di Campoli di Caulonia, stando agli atti dell’inchiesta, spalleggiati dai Vallelonga di Mongiana, avrebbero invece fatto di tutto per raggiungere la pace con Mario Vallelunga, figlio di Damiano Vallelunga, attraverso un accordo separato di cui si sarebbe fatto “garante” il comune cugino “milanese” Cosimo Vallelonga. La consapevolezza da parte dei Vallelonga della “tragedia” e degli inganni orditi ai loro danni dai Gallace-Ruga-Leuzzi sarebbe arrivata quando era ormai troppo tardi.   LEGGI ANCHE: ‘Ndrangheta: omicidio del boss delle Serre Damiano Vallelunga, due ergastoli (VIDEO)

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