‘Ndrangheta nei Comuni: l’ipocrisia della politica ed i timori per la maxi-retata nel Vibonese
Diverse le proposte di legge che mirano a rendere più difficili gli scioglimenti per infiltrazioni mafiose che invece sono destinati ad aumentare. Ecco perchè
E’ certamente l’argomento del giorno, al centro del dibattito politico in alcuni casi alimentato ad arte da chi mal sopporta regole e controlli. Stiamo parlando della legge sullo scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose, di cui da più parti si invoca (spesso a torto) la necessità di una modifica, onde evitare scioglimenti poi annullati dal Tar. I recenti casi di Lamezia Terme e Gioiosa Ionica, molto diversi fra loro (e che ancora aspettano la pronuncia del Consiglio di Stato che ben potrebbe ribaltare il verdetto come già accaduto in un recente passato a Tropea), hanno riaperto un tema di cui molti parlano senza alcuna conoscenza in materia. Vediamo, dunque, di fare un po’ di chiarezza e sfatare alcuni luoghi comuni frutto di ignoranza da un lato, di malafede dall’altro.
Il primo comma dell’articolo 143 del Testo unico sugli enti locali prevede che i consigli comunali e provinciali sono sciolti quando, a seguito di accertamenti effettuati da Commissioni di accesso agli atti nominate dal prefetto, emergono “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata di tipo mafioso ovvero su forme di condizionamento degli stessi, tali da determinare un’alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi ed amministrativi ovvero arrechino un grave e perdurante pregiudizio per lo stato della sicurezza pubblica”. La norma è chiarissima e già da subito spazza via tutte quelle proposte di modifica della legge e quei politici che sul punto urlano sulla necessità di codificare la presenza di “concreti, univoci e rilevanti elementi” per sciogliere un Comune o una Provincia per infiltrazioni mafiose. Tale presupposto, infatti, è già previsto. Altro argomento agitato da anni dalla politica locale è poi quello della mancata contestazione di fattispecie penali agli amministratori in caso di scioglimento. E’ bene dunque chiarire che lo scioglimento di un Consiglio per infiltrazioni mafiose – giustamente – non esige né la prova della commissione di reati da parte degli amministratori, né che i collegamenti tra l’amministrazione e le organizzazioni criminali risultino da prove valutabili alla stregua del giudizio penale. Gli ampi margini lasciati alle Prefetture nella potestà di apprezzamento degli elementi sui collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con le organizzazioni mafiose sono giustificati – come ribadito dalla Corte Costituzionale, e quindi sul punto insuscettibili di modifiche da parte del legislatore – dal carattere straordinario dell’intervento di scioglimento per infiltrazioni mafiose, nato per fronteggiare un’emergenza straordinaria quale quella della lotta alla mafia. Ecco, quindi, che la ratio della norma è quella di andare a colpire anche situazioni estranee all’area propria dell’intervento penale, nell’evidente necessità di evitare che l’amministrazione dell’ente locale rimanga permeabile all’influenza della criminalità organizzata. Facciamo qualche esempio per essere ancora più chiari. Un sindaco non è solamente un primo cittadino legittimato dal voto ad amministrare un Comune, ma ha anche funzioni di “ufficiale di Governo” e per questo statali. In quanto affidatario di funzioni pubbliche ha quindi il dovere di adempierle “con disciplina ed onore”, così come previsto dall’articolo 54 della Costituzione. Ecco perché, dunque, è più che doveroso che le Prefetture, e poi nell’ordine Ministero dell’Interno, Consiglio dei Ministri e Presidente della Repubblica, prendano in considerazione anche tutta quella serie di comportamenti i quali, pur penalmente irrilevanti, finiscono per svilire la credibilità degli enti locali. Un sindaco o un assessore che, mettiamo caso, si recano al matrimonio o al funerale di un mafioso, girano in auto con mafiosi o pregiudicati, frequentano delinquenti, si fermano al bar per giocare a carte con loro o sono parenti di delinquenti, è chiaro che non stanno commettendo alcun reato, ma è altrettanto chiaro che tali comportamenti ben possono avere una rilevanza ai fini di un eventuale scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose. La giurisprudenza del Consiglio di Stato, in linea con alcune decisioni della Corte Costituzionale, ha peraltro chiarito che il solo legame parentale di un amministratore con un mafioso non basta per sciogliere un Consiglio comunale, ma tale dato di fatto va valutato nell’insieme di altri comportamenti ed atti posti in essere nell’esercizio delle funzioni pubbliche. Una delle proposte di modifica dell’attuale legge, presentata da Forza Italia, mira così ad introdurre l’obbligo da parte dei componenti delle Commissioni di accesso agli atti o del Ministero dell’Interno di ascoltare le controdeduzioni degli amministratori sulle singole contestazioni. Ora, a parte il fatto che già allo stato le Commissioni di accesso agli atti in molti casi ascoltano la versione degli amministratori (nel Vibonese è successo con Tropea, Limbadi, Nicotera, Mileto, solo per citarne alcuni), tale proposta di legge non tiene in alcun conto che la Corte Costituzionale con sentenza n. 103/1993 ha sostenuto come la mancanza della preventiva contestazione degli addebiti (e della possibilità, di conseguenza, di controdedurre in ordine ad essi) nel procedimento di scioglimento per infiltrazioni mafiose, appaia “giustificata dalla sua peculiarità, essendo una misura caratterizzata dal fatto di costituire la reazione dell’ordinamento all’ipotesi di attentato all’ordine ed alla sicurezza pubblica e per tale motivo sottratta al diritto di comunicazione preventiva di avvio del procedimento”. Principio ancor più vero se si considera che anche abolendo del tutto la legge sullo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose – come vorrebbero in questi giorni alcuni politici, qualche giornalista e una folta schiera di amministratori già sciolti per mafia – il Presidente della Repubblica conserverebbe ugualmente tale potere, come è infatti accaduto nel 1984 quando Sandro Pertini (pur non esistendo all’epoca alcuna legge al riguardo) sciolse d’autorità il Consiglio comunale di Limbadi per motivi di ordine pubblico e per il solo fatto che fra gli eletti vi fosse Francesco Mancuso, patriarca dell’omonimo clan, che ancora doveva insediarsi. La proposta di Forza Italia sul punto servirebbe in ogni caso a ben poco, posto che la Commissione di accesso agli atti, se anche dovesse avere l’obbligo di ascoltare le controdeduzioni degli amministratori, non potrà mai divenire un arbitro neutro ed imparziale (proprio perché “parte” del procedimento) e stesso discorso per il Ministero dell’Interno che, al pari della Prefettura, potrebbe benissimo strafregarsene delle controdeduzioni degli amministratori. Quale il rimedio, allora? Uno solo: quello giurisdizionale, ovvero quello già previsto di poter ricorrere all’unico organo davvero terzo – il giudice – presentando ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato. Dove però la falla attuale del sistema? In qualcosa di molto semplice che, guarda caso, nessuna proposta di modifica della legge si è sinora premurata di affrontare, vale a dire i tempi della giustizia. Mettere in coda a tutti gli altri ricorsi che giornalmente affrontano i Tar anche quelli contro gli scioglimenti per mafia dei Comuni, significa dare risposte non in quei tempi rapidissimi che si richiederebbero invece in casi del genere. Basterebbe quindi introdurre una norma per dare una corsia preferenziale alla trattazione di tali tipi di ricorsi dinanzi al Tar e si risolverebbero gran parte dei problemi attuali evitando, o comunque limitando fortemente, “guasti” irreperabili al voto popolare. Nulla di tutto ciò è però previsto in nessuna delle modifiche alla legge presentate dalle forze politiche, così come scarne sono le proposte di modifica – compresa quella presentata da una senatrice del M5S – per eliminare dai Comuni tutti quei funzionari e dipendenti risultati vicini alla criminalità organizzata. Seconda questione non meno rilevante. Atteso che in questi anni si è assistito ad una quasi totale irresponsabilità della politica locale (specie nel Vibonese) e che neanche in caso di sentenze di scioglimento definitive degli enti locali per infiltrazioni mafiose sono stati messi alla porta gli amministratori che hanno provocato lo scioglimento, il Parlamento ha varato un’ulteriore norma che prevede l’incandidabilità. Duplice lo scopo: impedire che i responsabili dell’infiltrazione mafiosa possano ricandidarsi per almeno un turno elettorale successivo allo scioglimento, e al tempo stesso non punire quei consiglieri che nulla hanno a che vedere con lo scioglimento. Anche qui, però, l’ennesima falla nel sistema dovuta ai tempi lunghi per i giudizi di incandidabilità che seguono il rito del processo civile. Naturalmente, alcuna modifica della legge è stata proposta sul punto al fine di offrire una corsia preferenziale in Tribunale ai giudizi di incandidabilità degli ex amministratori. C’è poi una terza rilevante questione non affrontata da nessuna forza politica, vale a dire l’introduzione dell’obbligatorietà per le Prefetture di avanzare la richiesta di incandidabilità per tutti gli ex amministratori ritenuti nelle relazioni responsabili dello scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose. Attualmente, la discrezionalità lasciata sul punto alle Prefetture ed al Ministero dell’Interno ha fatto sì che in diversi casi nessuna richiesta di incandidabilità sia stata avanzata per ex amministratori che pur sono citati con specifici addebiti nel decreto di scioglimento. L’incandidabilità, inoltre, non dovrebbe essere ridotta ad un solo turno elettorale, ma aumentata almeno a tre turni elettorali, attesa la persistenza con la quale gli incandidabili continuano a far politica con la compiacenza dei propri partiti politici che quasi mai (almeno nel Vibonese) hanno allontanato nessuno. Di più: l’incandidabilità andrebbe allargata anche a tutti quegli amministratori che, pur non essendogli contestato alcun addebito nella relazione, risultano però sottoscrittori (perdenti, naturalmente) dei ricorsi al Tar ed al Consiglio di Stato con i quali chiedevano il ripristino delle amministrazioni sciolte per mafia. Non è infatti per nulla normale che un amministratore che perda un ricorso dinanzi ai giudici amministrativi per il ripristino dell’amministrazione sciolta per infiltrazioni mafiose, continui a fare politica come nulla fosse. E veniamo così al Vibonese. Se si vanno ad analizzare i decreti di scioglimenti dei Comuni per mafia – che hanno resistito al vaglio di Tar e Consiglio di Stato – si trova di tutto. Comuni in cui le chiavi del portone del Municipio le teneva il capomafia locale, comizi e vittorie elettorali con accanto fior di pregiudicati e sorvegliati speciali, sindaci presenti a matrimoni e funerali di mafiosi o loro parenti, sino a messaggi letti in piazza da qualche candidato con gli inviti del boss a votare per un determinato schieramento politico. Venendo invece alla situazione attuale, ci siamo già occupati a grandi linee dei Comuni del Vibonese più a rischio all’atto dell’insediamento del nuovo prefetto, Giuseppe Gualtieri (LEGGI QUI: L’INCHIESTA | ‘Ndrangheta ed enti locali: ecco cosa troverà il prefetto Giuseppe Gualtieri), mentre risalgono ad una fase successiva (l’ottobre scorso) le elezioni in altri due importanti Comuni che uscivano da gestioni commissariali per infiltrazioni mafiose e che per questo rimangono costantemente attenzionati: Nicotera (dove non è stato raggiunto il quorum e riandrà al voto in primavera) e Tropea (dove attualmente sono al governo alcuni di coloro che prima erano in minoranza e sono citati nella relazione della Commissione di accesso agli atti per legami parentali con pregiudicati). E’ tuttavia all’interno dei partiti che si ritrovano le situazioni più imbarazzanti nel Vibonese in ordine al rapporto mafia-politica. Per quanto riguarda il centrosinistra, ad esempio e per restare ai casi più emblematici, troviamo: un segretario cittadino del Pd, già amministratore di un Comune sciolto per mafia, legato da rapporti di comparaggio con esponenti di spicco dei clan; un altro segretario cittadino del Pd di altro Comune il cui padre è stato sindaco di un’amministrazione sciolta per mafia; un componente del direttivo provinciale del Pd già sottoscrittore di ricorsi a Tar e Consiglio di Stato persi nel proprio Comune sciolto per mafia. Non è da meno, naturalmente, il centrodestra dove spiccano leader politici beccati dalle forze dell’ordine in compagnia di malavitosi (citati in diverse operazioni antimafia) e (per quanto riguarda Forza Italia) stretti congiunti di sorvegliati speciali già vicini e prestanomi del clan Mancuso. Avere tali tipi di legami e far parte di coordinamenti provinciali, di centrosinistra quanto di centrodestra, finisce naturalmente per inquinare la vita politica non solo del proprio Comune ma anche di tutti gli altri centri del Vibonese, specie in occasione delle consultazioni elettorali e della formazione delle liste, con effetti nefasti che è poi proprio la Prefettura a dover spazzare via unitamente alla magistratura antimafia. In tal senso, alquanto significative appaiono le ultime dichiarazioni del procuratore della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri (il più tirato dalla “giacchetta” ultimamente da parte dei politici, a seconda della convenienza), il quale ha dichiarato che “ancora i calabresi non hanno visto nulla e molti altri Comuni saranno presto sciolti per infiltrazioni mafiose”. Il procuratore ha poi aggiunto che ultimamente è quello che sta dando più lavoro di tutti alle Prefetture e al ministro degli Interni riguardo proprio le notizie che portano allo scioglimento dei Comuni. Atteso che Gratteri non parla mai a caso, ad avviso di chi scrive il riferimento anche ai Comuni del Vibonese, oltre che del Crotonese, è quanto mai chiaro. E ciò per semplicissimi dati di fatto: l’inchiesta “Costa Pulita” lascia aperta una vera e propria “autostrada” investigativa sul fronte dei rapporti mafia-politica lungo la costa vibonese che va da Nicotera a Pizzo; a Vibo e nel Vibonese sono già emersi da precedenti inchieste rapporti fra amministratori e ‘ndranghetisti che meglio possono essere illuminati e spiegati da protagonisti che li hanno vissuti da vicino, dal di dentro ed in molti casi in prima persona, vale a dire i collaboratori Raffaele Moscato, Andrea Mantella ed Emanuele Mancuso; come svelato dalla Direzione nazionale antimafia, sino al 30 giugno 2015 la Dda di Catanzaro ha invece iscritto sul registro degli indagati oltre 1.500 persone del Vibonese per associazione mafiosa o reati aggravati dalle modalità mafiose, numero di certo non diminuito dopo l’avvio delle collaborazioni di Mantella (2016) ed Emanuele Mancuso (2018). E proprio nella città di Vibo Valentia si registrano gli ultimi “movimenti” che ancora una volta accendono i riflettori (come già accaduto con le amministrative del 2015) sul rapporto fra mafia e politica, con elementi di primo piano della criminalità locale che si sono già mobilitati in vista delle prossime elezioni comunali e, in alcuni casi, anche mostrati platealmente. “Pagine” di dinamiche criminali e accordi sottobanco con la politica destinati ad essere presto scritti e letti. Il tutto, naturalmente, aspettando quello “scossone” giudiziario da molti “colletti bianchi” e politici temuto quanto al tempo stesso atteso dai cittadini che non aspettano altro di poter respirare “aria” più pulita. Una maxi-retata che potrebbe mutare radicalmente proprio a Vibo Valentia e nel Vibonese scenari e programmi di diversi politici locali, di centrodestra quanto di centrosinistra, molti dei quali – già da tempo – hanno smesso di dormire sonni tranquilli. 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