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Michele Porcelli oggi avrebbe compiuto 56 anni. L’inedito racconto di quel tragico 8 aprile

Il nostro collega era intento ad effettuare delle riprese, quando è caduto in un dirupo. Oggi lo ricordiamo attraverso un articolo mai pubblicato prima, in cui si ripercorrono quei momenti drammatici attraverso gli occhi di chi lo ha visto fino alla tragedia

Michele Porcelli oggi avrebbe compiuto 56 anni. L’inedito racconto di quel tragico 8 aprile

Sono le 8.01. Il suo minuto di ritardo, Michele, se lo concede sempre. Abbiamo appuntamento a Diamante, alle 10.30. Dobbiamo poi risalire verso Buonvicino per realizzare un documentario sulla strage che si consumò il 19 novembre 1996. Da qualche settimana abbiamo iniziato a girare le puntate di un nuovo format, A Sangue Freddo – Delitti e misteri. L’Azienda mi affida il compito di esserne l’autore e regista, si scommette su una nuova conduttrice, Carmen Bellissimo. Siamo galvanizzati per la qualità del materiale che abbiamo già messo in cascina per altre puntate e adesso vogliamo raccontare anche quell’atroce e dimenticata vicenda che venticinque anni fa sconvolse il suggestivo centro abbarbicato sulla montagna che guarda l’alto Tirreno cosentino. [Continua in basso]

Deve essere Antonio Paglianiti a girare le riprese aeree, ma è costretto a restare in sede per curare la regia dell’Inviato speciale. Lo dovrebbe sostituire Saverio Caracciolo, ma il suo drone dà forfait. Tocca così a Michele Porcelli: lo prendiamo in prestito dalla regia del tg. È uno sgamato, Michelone. Ha trent’anni di televisione alle spalle, è uno eclettico, che sa far di tutto. È entusiasta dell’idea, perché è da un po’ che non lascia gli studi della tv per le esterne. E poi lui non vede l’ora di giocare un po’ col suo drone tra le valli dell’Appennino calabrese.

Il viaggio

L’attrezzatura nel bagagliaio. Partiamo. Guida Michelone, io al suo fianco. Dietro siede Carmen. Il viaggio è uno spasso, anche se sbagliamo strada e ci impieghiamo quaranta minuti in più ad arrivare. Ci fermiamo ad una stazione di servizio, dove Michele ci scatta una foto con il suo IPhone nuovo di zecca, del quale, fino ad allora, aveva decantato le strabilianti performance. È un intenditore lui. Inizio a guidare io, Michele va dietro dove uno della sua stazza ha più spazio. Carmen viene avanti. [Continua in basso]

Si cazzeggia. Rosalba Ciconte gli invia un audiomessaggio: la regia del tg sente la sua assenza. Poi Franco Donato: sarà lui a prendersi cura di Rosalba e di Letizia De Gaetano, che sgobbano nella rifinitura dei montaggi e nelle titolazioni. Il clima è goliardico durante il viaggio. Si parla di Rossella Galati. Michelone ha un debole per lei, un debole dichiarato, alla luce del sole. Ci mostra orgoglioso una foto che le ha scattato: decanta i colori dell’immagine, l’effetto bokeh, la butta sull’arte, ma in realtà è di Rossella che parla. La adora. E Rossella adora lui. Sono legati da un’amicizia vera e sincera.

I progetti

Ci avviciniamo a Diamante. Definiamo ciò che va fatto. Realizzeremo le interviste nella piazza di Buonvicino, dove c’è un gazebo molto suggestivo. Michele riprenderà col drone il paese, la valle, il mare. Il grosso delle riprese va fatto però attorno alla casa teatro della tragedia. Il mio storyboard prevede che Carmen sia ripresa in slowmotion lungo la strada alberata attraverso cui l’assassino, consumata la strage, fuggì via portando con sé i due bambini: campo larghissimo fontale, campo largo, primo piano, dronata a spirale dal profilo fino alle sue spalle di Carmen e poi push out a 45 gradi. [Continua in basso]

Racconto in voice over. Il resto lo facciamo sfruttando la casa: i passi di Carmen tra la terra ed il muschio, lei che osserva le pareti consumate dal tempo, la sua mano sulla porta… Piani larghi, primissimi piani dettagli. E poi il drone. Tanto drone. «Me la vedo io… Me la vedo io…», ripete Michele. Deduco che, come al solito, ha fatto finta di ascoltare. Farà di testa sua. E dopo che avrà fatto di testa sua, al momento, dovrò ricordargli lo storyboard. Ci ridiamo sopra e andiamo avanti.

L’arrivo. Il drone

Arriviamo a Diamante. Ci aspettano Fabrizia Arcuri e Sergio Caruso, la nostra collega giornalista e il criminologo, coautori di Sangue del mio sangue, edito da Michele Falco, che ha avuto il merito di strappare dall’oblio la più grande strage familiare consumatasi in Italia dal secondo dopoguerra. Con loro c’è anche la nostra bussola, Francesca Lagatta, la corrispondente di LaCTv sull’Alto Tirreno. Ci dirigiamo verso Buonvicino, dove ci raggiungerà anche Marco, il bambino sopravvissuto alla strage oggi divenuto uomo. Inizieremo da loro. Studiamo la fotografia, scegliamo le lenti e la distanza focale, piazziamo le fotocamere sui treppiedi e sistemiamo i microfoni. «Allora?», chiedo a Michele mentre Carmen dà un ritocco al make up. Lo scenario davanti a noi è mozzafiato.

«Faccio decollare il drone – mi risponde – Non c’è vento. Uso il mio. È leggerissimo ma è stabile fino a dodici nodi…». La situazione è ideale. Si allontana un centinaio di metri per evitare il ritorno delle eliche nei microfoni. Iniziamo ad intervistare Fabrizia. Un paio di minuti e Michele richiama la mia attenzione. «Pie’… Oh… Si è schiantato il drone…». «E com’è successo?». «Non lo so, forse un uccello». Così mi mostra il display dove il gps indica la posizione del drone. «Da quello che ho visto, è incastrato tra i rami di un albero. Lo vado a recuperare». «Miche’, ma dove devi andare? Lo vedi che è una timpa? Lascia fottere… Prendi l’altro e buonanotte…». «Sì, lo so, ma è assicurato, se si è rotto me lo cambiano…». «Sì, te lo cambiano ma glielo devi riportare… Fottitene…». «Qua sotto ci sono le campagne, nelle campagne sarà, c’è la signora che conosce il posto e mi accompagna…».

L’allarme

Penso: fosse stato il mio drone sarei andato a riprenderlo, perché devo impedirglielo? «Vabbò Miche’, fai come ti pare», gli dico. Me ne pentirò. Così come mi pentirò di non averlo seguito e di aver continuato nelle interviste. Torno da Carmen e da Fabrizia, riprendo la registrazione dell’intervista. Passano pochi minuti e sentiamo voci concitate alle nostre spalle. La donna che ha accompagnato Michele sul luogo dello schianto dello drone torna in piazza. La sentiamo parlare con Francesca Lagatta. «Ho sentito un tonfo, temo che il vostro collega sia caduto e adesso non risponde», dice. «Chi? Michele?», urla Carmen. E io: «Come? È caduto?». E Carmen: «Bisogna subito chiamare i soccorsi». Quelle parole verranno registrate dai nostri microfoni e le risentirò di continuo.

La paura

Stacco la registrazione, mi viene istintivo farlo: in quel momento la priorità diventa sapere che fine abbia fatto Michele. Lo chiamo al cellulare: quattro chiamate consecutive senza risposta. Magari starà bene, magari non sente. Magari starà tornando col drone. Ma io chiamo i carabinieri. Non possiamo stare col dubbio che gli sia successo qualcosa di grave. Cerco di fornire più dettagli possibili e spiego al 112 che non riusciamo a capire dove sia finito. Provo ad essere lucido e a fornire una descrizione dettagliata di ciò che vedo, ma lì è urgente raggiungerlo e possono farlo solo i vigili del fuoco e un elicottero. Iniziamo a gridare il suo nome dal balcone che si affaccia sulla valle, ma non c’è risposta.

Mi chiamano i vigili del fuoco avvisati dai carabinieri, hanno bisogno di dettagli ulteriori. Glieli fornisco. Sono minuti di terrore. Ci impiegheranno ad arrivare ed ogni secondo può essere prezioso. Magari Michele ha bisogno di essere soccorso adesso, la sua vita è in pericolo e quando arriveranno vigili del fuoco ed elisoccorso sarà ormai troppo tardi. Così io e Carmen ci facciamo accompagnare dalla donna nel punto in cui ha lasciato Michele.

L’istinto

Si era spostato con l’auto a circa trecento metri dalla piazza. C’è una casa vecchia, abbandonata, con una corte al limite della quale inizia una scarpata. «È sceso da qui», ci indica la donna. Provo a scendere anche io, ma non trovo le tracce dei suoi passi. La pendenza è accentuatissima, è terra scivolosa, coperta di erba e muschio, carica di acqua. Vado giù qualche metro e scivolo la prima volta. Mi tengo a fatica da un arbusto. Torno su, da qui non si può scendere. Provo a scendere su un altro percorso che è più lungo ma mi sembra meno ripido e che mi porta al grande albero che la signora mi ha indicato come il punto in cui si è diretto Michelone ed oltre il quale non si vede nulla. Intanto Carmen, dietro di me, mi urla di tornare indietro e di rinunciare. Provo a scendere ugualmente. Scivolo un’altra volta, ma vado avanti. Sono in uno stato catatonico. Carmen urla di nuovo. Scendo ancora, scivolo un’altra volta ma mi tengo a fatica da un altro arbusto. Sento anche Francesca che urla e poi Carmen che mi scuote, mi spaventa e mi sveglia. Oltre quell’albero c’è solo il vuoto. Capisco che è una follia continuare. Desisto. A fatica riesco a risalire.

La tragedia

Torniamo in piazza, disperati. Continuiamo ad urlare: «Michele! Michele!». Nel frattempo Sergio Caruso trova una persona che conosce i luoghi e inizia a camminare lungo una strada che scende per la valle, attraversa le campagne e poi risale verso il punto in cui Michele si è avventurato alla ricerca del drone. Passano i minuti, è straziante. Poi Sergio chiama Francesca: «Lo abbiamo trovato, ma non si muove». Michele è riverso, in posizione prona, in un canale di pietra che costeggia il dirupo. Non dà segni di vita, non reagisce ad alcuna sollecitazione. Non possono raggiungerlo e tirarlo su. È ad un livello ancora più basso. La scena che descrive Sergio, al telefono, ci porta allo sconforto alla disperazione. Arriva l’elisoccorso, volteggia, cerca un punto sul quale atterrare.

Ci sono i vigili del fuoco. In tutto questo tempo si susseguono le telefonate con l’editore, il direttore editoriale, il direttore di rete, la redazione: il dramma che si sta consumando è sconvolgente. Lacrime, frustrazione, incredulità, rabbia, disperazione e ancora disperazione. L’eliambulanza non si rialza. Speriamo ancora: forse Michele lo stanno rianimando, forse è vivo e lo stanno stabilizzando per poi portarlo in ospedale. Ma non sentiamo più le eliche. Qualcuno vede un lenzuolo bianco. Qualcun altro invece una lettiga. Lo stanno coprendo, o forse no, lo stanno immobilizzando. Poi Francesca riesce a sentire il medico che in fondo alla valle guida l’equipaggio dell’eliambulanza: «Abbiamo constatato il decesso».

Il dolore

Senti davvero la terra mancare ed insieme il mondo crollarti addosso. Vivi un incubo dal quale non riesci a svegliarti. Vieni travolto. È una valanga che ti assale e ti toglie il respiro. Sento la mia disperazione e quella dei colleghi che stanno in redazione. È dilaniante. Penso a ciò che è successo, a cosa ha combinato Michele. A cosa avrei dovuto fare io per impedirgli di andare. Penso che avrei dovuto accompagnarlo e magari lo avrei dissuaso. Penso all’urlo di Carmen, che ha fatto desistere me. Così come io avrei potuto fare con Michele. Soffoco le lacrime mentre parlo con mia moglie ed i miei genitori. Le soffoco ancora mentre parlo con i colleghi. Con altri non riesco e mi lascio andare.

Arrivano i carabinieri, mi chiedono di contattare la famiglia. Io conosco solo suo zio, Lullo Sergi. È uno dei più grandi giornalisti partoriti da questa terra così meravigliosa e maledetta: uno di quelli davanti ai quali, noi lattanti, dovremmo solo inchinarci. Lo sento. È uno strazio. Poi guardo il vuoto sotto di me, è come se mi chiamasse, mi dice: vieni qui che passa tutto…. Basterebbe un passo, ma c’è un’immagine che apre la mia mente, una voce che posso udire solo io, mi chiede: resta dove sei, non un passo in più. Non la dimenticherò mai.

«Ci dispiace…»

Mi sveglio, provo a scuotermi. Arriva il sindaco di Buonvicino assieme ad un altro carabiniere. Mi dicono che c’è da fare il riconoscimento per spostare la salma e che dovrò essere io a farlo. È un incubo senza fine. Sul posto c’è già il medico legale e sta arrivando anche il magistrato. Arriva anche il capitano. Mi conducono sul posto. Il corpo di Michelone è adagiato sotto un telo bianco. Lo hanno spostato dal canalone per consentire al medico legale di effettuare l’esame esterno. Vivo con angoscia l’attesa del momento in cui solleveranno il velo. Ma i carabinieri della Scientifica hanno recuperato nella borsa di Michele i suoi documenti: quell’ennesimo dolore mi viene risparmiato. Il magistrato della Procura di Paola decide di restituire la salma alla famiglia. Aprirà un’inchiesta a carico di ignoti per omicidio colposo, veniamo subito interrogati. È un atto dovuto, ma è chiaro a tutti che è stata una fatalità. E tutti, i carabinieri, i vigili del fuoco, tutti, ci guardano e ci dicono: «Ci dispiace, ci dispiace tanto…».

Il suo corpo in un sacco

Dobbiamo spostarci, dobbiamo attendere l’arrivo degli addetti alle onoranze funebri. Saranno loro a portare via Michele. Al loro arrivo li raggiungiamo a valle. Attendiamo ancora. Ad un certo punto li vediamo scendere per un sentiero ripido e sdrucciolevole. Sono in tre e portano a fatica una lettiga. Il corpo imponente di Michele è avvolto in un sacco. «Non ce la facciamo – dice uno di loro – qualcuno deve darci una mano». Mi avvicino, assieme a Luigi Salsini. È un collega concorrente. Ci facciamo forza. Tengo la lettiga. Michele è a pochi centimetri da me. Sfioro il sacco, ma non riesco a guardarlo. Provo a concentrarmi tra il vuoto, il sassi e la terra che scivolano sotto i miei piedi. Arriviamo a pochi metri da furgone. Adagiano la salma dentro.

Sono solo lì davanti, mentre il portellone posteriore lentamente si abbassa. Mentre Michelone viene portato via da un carro funebre, devo rappresentare io tutto quel mondo a cui dice addio. Il peso di tutto questo mi schiaccia. Piango come un neonato. Si avvicina Francesca Lagatta, mi abbraccia come una mamma fa con un figlio. Eppure sono io quello grande, l’uomo, il giornalista esperto. Michele viene portato via. Lo rivedrò il giorno dopo, in una casa funeraria di Lamezia Terme. Vedrò i graffi e le tumefazioni sul suo volto. Un tampone sull’orecchio destro. Sarò pietrificato davanti a lui. Apprenderò che probabilmente si è fratturato anche un braccio nella caduta che gli ha provocato certamente una commozione cerebrale letale. Ha avuto paura Michelone, ma forse non ha sofferto.

L’addio

Gli diremo addio prima in tv e poi in Chiesa. Veniamo sommersi da messaggi e chiamate d’affetto e vicinanza. L’editore gli dedica gli studi televisivi. Tutti i colleghi piangono. È disperante tutto questo. Vedo Lullo Sergi, lo zio di Michele. Mi viene istintivo avvicinarmi, chinando la testa davanti a lui quasi ad invocare perdono, non riuscendo ad incrociare il suo sguardo. «Mi dispiace, mi dispiace tanto… Lullo». Non riesco a dire altro. In quel «Mi dispiace» ci sono tutti i sensi di colpa che mi porto dentro. Ne parlo, lo dico, racconto, ne scrivo. Forse mi aiuterà ad elaborare qualcosa che è più grande di me. E segnerà per sempre la mia e le nostre vite.

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