Fasti e miserie di Palazzo Giffone a Tropea, la dimora nobiliare confiscata dallo Stato cade in rovina
Il reportage. Da tre secoli svetta sulla celebre rupe affacciata sul Tirreno. Nelle sue stanze è passato un pezzo della storia d’Italia. L’ultimo erede Luigi Giffone racconta con dolore e rammarico lo scempio ai danni di un simbolo della città
«Il mio palazzo è un pericolo pubblico. Un San Sebastiano di pietra, che rischia di crollare al primo cedimento, e minaccia tropeani e turisti». Non usa mezzi termini l’architetto Luigi Giffone per denunciare le condizioni dell’omonimo palazzo oggi in rovina. Quello che resta della dimora settecentesca un tempo appartenuta alla sua famiglia, 4 piani e 2200 metri quadri a picco sullo scoglio San Leonardo, lungomare di Tropea, ha un aspetto desolante. Requisito dallo Stato i primi del ‘900 ed abbandonato da decine di anni, è ancora proprietà del Demanio. «Per anni, per questo rudere, il Comune ha pagato allo Stato un affitto di 12mila euro l’anno: un danno oltre alla beffa», prosegue Giffone. Anche il neo sindaco Giovanni Macrì, aveva inserito la questione nel programma elettorale. Ora rimarca l’urgenza di messa in sicurezza e riqualificazione. «Va detto che l’affitto, dopo la revoca dell’assegnazione del bene, è attualmente oggetto di un contenzioso – spiega Macrì -. Ma a parte questo, il palazzo è una nostra priorità. Lo considero un simbolo per Tropea, e come tale deve essere valutato. Con quei volumi e quella posizione, può e deve diventare il nostro biglietto da visita. Per questo, il Comune deve farsi capofila di un’azione pubblico-privata, per restituirgli la centralità che merita nel tessuto urbanistico, turistico e culturale». (L’articolo prosegue sotto la pubblicità)
Voci false e calcinacci veri. Negli ultimi anni, il colosso dai piedi d’argilla è stato oggetto delle illazioni più fantasiose. Acquistato da emiri, da investitori stranieri, da miliardari americani, da ricchi italiani; destinato alla demolizione, a un museo navale, a un resort di lusso. Dati certi, oggi, nessuno. Anzi, tre cose sicure si conoscono: i calcinacci che cadono una tantum sui motorini dei ragazzi dello Scientifico; la messa in vendita dal parte del Demanio nel 2014 insieme ad altri 41 gioielli di famiglia nazionali; l’amarezza del più anziano dei Giffone, Luigi.
Luigi Giffone: la memoria e la rabbia. Tornato a Tropea con 80 anni di ricordi alle spalle, Luigi Giffone (in foto nel ritratto di Giovanni Galardini) ha nelle scarpe le leghe di una vita vissuta tra Teheran, Londra, Stati Uniti, estremo Oriente. Un anziano straordinario, che ha lavorato persino per lo scià di Persia. Rigore anglosassone e stomaco calabrese, abiti coloniali e un panama sulla testa, modi da viaggiatore di lungo corso, ha la malinconia di chi fa i conti ogni giorno con un carico di disillusioni e amori perduti. Non ultimo, quello per le rovine della sua casa. Oggi è come se vivesse dentro una finestra: una casa-grotta aperta sul mare, 50 metri quadri scavati nella roccia, nel Corallone, borgo di pescatori con il parcheggio intasato dalle apecar «che puzzano di pesce, ma mi piacciono, mi fanno compagnia». Mentre parliamo, echi di partite a carte epiche, radio col volume sparato da migranti tornati sordi dalle miniere del Belgio, il riverbero del mare dentro casa, Stromboli che lo puoi toccare. Nel cortile, la massara torna dal mercato tra bambini che giocano ed urlano di pallone, con quelle grida ondulate e arabe del sud stereotipato, da cartolina, viscerale. Le spalle alla finestra sul mare, ha l’energia per raccontare della sua casa, di com’era quand’era bambino, e di com’è ora: «Una tragedia annunciata. Non voglio passare per il nobile che rivuole indietro il palazzo di famiglia – dice -. Chiedo solo che qualcuno ne abbia cura. Che fede posso avere, in uno Stato che sequestra per distruggere? Mi chiedo: è o non è un sacrilegio?». (L’articolo prosegue sotto la pubblicità)
«Le tasse ai Savoia? Mai!». Il “sacrilegio” inizia alla fine dell’Ottocento. Il vecchio Giffone, il nonno di Luigi, antifrancese antisabaudo e borbonico sino al midollo, liquidava il Risorgimento in due parole divenute il motto dei neoborbonici di Calabria: «I turchi vinniru, ammazzaru, abbruciaru, ma poi s’indiru. I piemontìsi faranno ‘u stessu, ma nun s’indirannu. ‘Cca arriveranno, e ‘cca resteranno. E io a loro le tasse non le pago!». Tasse ai Savoia? Mai! L’esattore che ogni mese si affacciava al portone, lo supplicava dal fondo delle scale, la coppola in mano, lo stesso timore reverenziale di quando quell’ingresso lo varcava servo, che tanto bene era lui, già fittavolo della famiglia, ad essere stato promosso dai Savoia da contadino a funzionario.
«Eccellenza, per l’amor di Dio, aviti i pagari!». «Vattìnni pezzente,‘u ti sparu!» la minaccia puntuale, sempre più esasperata, mese dopo mese, si ripetè sino al fattaccio: sin quando, cioè, il nonno sparò davvero. Lo fece così, per spaventare, mirando ai piedi. Ma non sparò, come credeva lui, ad un fittavolo arrogante: Luigi Giffone aveva sparato al Nuovo Stato Unitario. E tanto bastò. Nei vent’anni che seguirono, nessuno bussò più a batter cassa. Un fittavolo non era bastato: dovette entrare in scena il Governo. Che nel 1903, a fronte del mancato pagamento, sequestrò casa e arredi. Era la prima tappa di una Via Crucis che ancora oggi non vede catarsi.
Lo Stato lo confisca e l’edificio va in rovina. «Dopo la confisca – racconta l’architetto-, il Demanio impose l’affitto alle sorelle del nonno, per permettergli di abitare qualche stanza al piano terra. L’ultima volta che le vidi, nel 1938, erano ancora lì. Avevo 12 anni. Quell’anno la famiglia aveva fatto la prima offerta per riavere il palazzo. E fu subito chiaro che non ce lo avrebbero mai ridato. Neanche in cambio di somme altissime. Per cosa, poi? Per distruggerlo. Lo Stato lo ha abbandonato, ci si è accanito in una escalation di imperizia e grossolanità. Non è stata una spoliazione, un abbandono. Non è stata incuria. È stato accanimento. È stato un martirio».
Gli arredi saccheggiati. «Già dal 1903 si erano insediati Ufficio del Registro, Guardia di Finanza, Liceo. Morte le zie, lo Stato si appropriò di tutto l’immobile. Fino agli anni ’50, vi si alternarono enti su enti. Sin dall’insediamento dei primi uffici pubblici, il mobilio spariva giorno dopo giorno. Erano così tante le suppellettili sparse per 2mila metri quadri, che per anni la nostra famiglia ha alimentato il mercato clandestino dei rigattieri. Ogni tanto, in un impeto di coscienza, qualcuno veniva da noi, proponendo di riacquistare un pezzo che doveva essergli apparso di valore particolarmente simbolico. “Eccellenza, pigghiativi sta cosa… voi, o i cuggini vostri. Eccellenza, vi prego: aviti a ripigghiarla vui”. Non ricordo più quante persone mi sono venute a cercare, proponendomi di ricomprare il mio. Hanno bussato tutti, tranne lo Stato. Lui non è mai venuto».
Gli interventi “conservativi”. «Vennero rigettate tutte le offerte formulate e negli anni si susseguirono una serie di interventi tanto grossolani, da trasformare la casa in una minaccia. Prima scoperchiarono il tetto, nel folle tentativo di alleggerire la struttura, senza considerare il disastro che avrebbero provocato le infiltrazioni. Nel giro di pochissimi anni le travi di castagno si disgregarono sotto le intemperie, mentre del fantomatico progetto di sostituirle con l’acciaio, non se ne era fatto più nulla. Di lì in poi, la situazione si fece critica. Intorno agli anni ’50 il Genio civile aveva abbattuto le pareti principali, per poter ricavare dei piccoli uffici dai saloni, delle stanzette da con divisori in cemento armato. In altre parole, ha costruito un martello interno, che con una piccola scossa di terremoto si potrebbe abbattere sulle mura portanti già compromesse. Una scacchiera di cemento armato, inutile e pesante, che percuote le mura esterne con escursioni termiche non in sintonia con quelle delle murature antiche. Se le infiltrazioni hanno infradiciato la struttura, il cemento ne ha compromesso l’elasticità».
Oggi rischia di crollare sulle teste di chi passa. «Il palazzo è costruito per tre piani fuori terra, a picco sulla rupe, e ha degli scantinati sotterranei che affacciano al mare: è una bomba ad orologeria, a rischio crollo. Le scuole, il liceo, sono proprio lì davanti. Sotto, ci sono un residence, l’accesso al Porto, il lungomare. Ormai rimetterlo in sesto è impresa titanica. A occhio e croce, siamo intorno ai dieci milioni di euro. C’è qualcuno che si renda conto del pericolo che corrono ogni anno i cittadini, i turisti, gli ospiti del villaggio sottostante?».