‘Ndrangheta: il clan Soriano pedinava i carabinieri e pianificava la corruzione dei giudici
Alcuni sodali della consorteria si vantavano di pranzare al ristorante mentre i militari dell’Arma erano impegnati, da mattina a sera, a cercare armi e droga nei loro terreni
Carabinieri seguiti in auto dai presunti sodali del clan, l’assoluta certezza di essere a conoscenza di un’attività intercettiva e la possibilità di avvicinare i giudici attraverso gli avvocati. E’ quanto emerge dall’operazione “Nemea” contro il clan Soriano di Filandari, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare da parte del gip distrettuale di Catanzaro. Un’inchiesta condotta sul campo dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Vibo Valentia, che hanno stroncato sul nascere i propositi dei Soriano, intenzionati a riappropriarsi del territorio attraverso azioni violente nei confronti delle vittime e la ripresa dello smercio in grande stile di stupefacenti. E’ l’8 gennaio scorso quando i carabinieri del Nucleo Investigativo di Vibo in abiti civili si portano a Pizzinni di Filandari in prossimità dell’abitazione di Leone Soriano. Qui giunti, i militari dell’Arma notavano numerose autovetture parcheggiate, fra le quali anche quella di Francesco Parrotta. E’ a questo punto che accade qualcosa che dimostra ulteriormente – ove ve ne fosse ancora bisogno – il controllo del territorio da parte dei componenti del clan di Filandari per come emerso in passato anche con altre operazioni: “Miranda”, “Rotarico” e “Ragno” su tutte. L’auto con a bordo i carabinieri in borghese viene infatti seguita dall’autovettura di Parrotta. Un pedinamento paradossale ed a parti inverse, “cartina di tornasole – annotano gli investigatori dell’Arma negli atti dell’operazione Nemea – di come il sodalizio controlli di fatto il territorio. Appare infatti più che plausibile che il transito della macchina del Nucleo Investigativo, sconosciuta ai soggetti fermi dinanzi la casa di Leone Soriano, abbia generato in questi il sospetto tale da indurli ad un pedinamento”.
Non è però il solo aspetto paradossale dell’inchiesta. L’attività investigativa ha infatti fatto emergere come Francesco Parrotta ed altri sodali avessero l’assoluta certezza di un’attività intercettiva nei loro confronti. “Una certezza che si basa sulle attività di riscontro – spiegano gli investigatori – eseguite nel corso delle operazioni di perquisizione effettuate”. Emblematica della sfrontatezza e dell’arroganza del clan di Filandari è quindi un’intercettazione del 18 febbraio scorso in cui Francesco Parrotta, dialogando con un giovane di Mileto che teme di essere intercettato (“Ci stanno registrando…”), si lascia andare a toni chiaramente dispregiativi nei confronti dei carabinieri. “Lasciali stare che registrano, tanto registrano sta coppola di c….! Noi mangiamo al ristorante, alla faccia loro – si lascia andare Parrotta – che vanno terre terre che trovano…, dalla mattina alla sera per venti euro al giorno”. Ancora più inquietante l’intercettazione del 17 febbraio scorso in cui Leone Soriano formula espressamente l’intenzione e la possibilità di consegnare nelle mani di qualche avvocato un’ingente somma di denaro al fine di corrompere qualche giudice compiacente. “Versare centomila euro…, glieli davo all’avvocato”. Un passaggio di estrema valenza, secondo gli investigatori, in quanto Leone Soriano non starebbe “parlando in maniera spropositata poichè cita, per conoscenza, un precedente episodio che vede coinvolto un membro di un’altra consorteria mafiosa”: quella degli Anello di Filadelfia. Un’intenzione, quella di Leone Soriano, sulla quale i carabinieri e il pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, sono impegnati a fare piena luce.
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