Primo maggio: l’uomo che lavora tra restaurazione, fine impero e rinascimento
La pandemia del coronavirus non ha fatto altro che mettere a “nudo” il sistema economico-sociale su cui era stato fondato uno pseudo “sviluppo partecipato” da cui tutti potessero trarre dei profitti. Ma ecco che adesso c’è l’opportunità di cambiare
di don Pietro Carnovale*
Mai come oggi, anche a causa della pandemia, la Festa del Lavoro di quest’anno ci impone di puntare sull’essenziale, come più volte e da più parti ci è stato richiesto in questi ultimi mesi. In passato, tutti abbiamo ritenuto opportuno e necessario creare occasioni/eventi/dibattiti sul lavoro, o meglio sull’“uomo che lavora”, come richiamava il “papa operario” Giovanni Paolo II.
Siamo costretti a trasferire “sui social” le occasioni di confronto e riflessione, ma la realtà tragica e inquietante rimane fra di noi, nelle nostre case e offusca il cuore e il futuro di milioni di persone. Mai come oggi, parole come: lavoro, salario, dignità, diritti, futuro hanno e devono avere un significato “vero”. [Continua]
Non bastano gli annunci di soldi e finanziamenti che, purtroppo, ancora non arrivano nella disponibilità dei destinatari. Né gridare alla “crisi” di coloro che, magari fino a ieri hanno sfruttato i loro dipendenti e oggi chiedono l’intervento del Governo. Le persone “rimaste a casa” chiedono “aiuto per mangiare”, ma anche e, soprattutto “un lavoro per dare un futuro ai miei figli”. E’ stato come un ritornello, una litania che in tanti hanno ripetuto dinnanzi a un microfono o scritto in un messaggio Wathsapp. Qualcuno ha “preferito” dare l’assalto ai supermercati, ma per nostra fortuna, sono stati isolati e scoraggiati dal proseguire l’esperienza…
La pandemia del coronavirus, quindi, non ha fatto altro che mettere a “nudo” il sistema economico-sociale su cui era stato fondato uno pseudo “sviluppo partecipato” da cui tutti potessero trarre dei vantaggi, o meglio dei profitti. Le vittime come sappiamo sono causate sia dal sistema “liberale” che da quello “ideologico”, perché nessuno dei mette, realmente, al centro l’uomo e la sua dignità. E non si tratta di tornare alla “concertazione fra le parti”, ma di “fondare” un nuovo modo di pensare, concepire e vivere la realtà della persona umana, il lavoro, il credito, lo sviluppo “autodeterminato e non imposto” dei singoli e della comunità.
Gli scenari possibili, in cui collocare la riflessione, per il dopo-pandemia, potrebbero essere: la restaurazione – ritornare a “come si faceva prima”, con le “strutture di peccato”, con gli “scompensi della globalizzazione”, non riconoscendo che “l’anello debole” del sistema è “l’anello umano” che, più di tutti gli altri paga i costi;
la fine dell’impero – “ammettere e accettare” che la globalizzazione così è stata “costruita” porta alle tragedie e alle vittime. Senza la globalizzazione “della solidarietà e dell’autentico sviluppo” dell’uomo e di ogni uomo, ogni progetto di ripresa sarà parziale e destinato a fallire;
il rinascimento – che come ogni nuovo processo, deve essere “elaborato e maturato” tra principi e realtà e, finalizzato al vero “bene-essere” di tutti i protagonisti è per sua natura “lento”, esige i suoi tempi. Soprattutto è necessario prevedere le modalità degli interventi, per gli inevitabili “imprevisti” che potrebbero essere causati.
L’immagine finale sarà allora quella nave che, essendo in navigazione non può interrompere il suo viaggio, anche se ha subito dei danni, altrimenti rischierebbe di affondare. È necessaria quindi la volontà e l’abilità di tutti per riparare la falla per proseguire la rotta e arrivare alla destinazione. Nessuno si può e deve tirare indietro! La differenza non sarà quindi tra credenti e non credenti, addetti ai lavori/esperti o politici/sindacalisti ma tra uomini che sanno essere responsabili delle loro scelte di oggi e di domani e chi invece, ha rinunciato ad essere un “essere umano”!
Ce la faremo! Più che un desiderio, un impegno per noi tutti!
*Responsabile Ufficio Diocesano Pastorale sociale e del lavoro