Oggi facciamo i conti con un fascismo rarefatto e avvolgente che finge di essere protettivo: solo la scuola può produrre gli anticorpi giusti
Un impulso illiberale che si camuffa da difesa identitaria con l’esaltazione del leader maximo. Ecco perché la festa del 25 aprile resta attuale e preziosa

Con l’80esimo anniversario il 25 aprile – mai come quest’anno – richiama al dovere della memoria e della consapevolezza del valore della pace e della democrazia. Ribadire che il 25 Aprile è il giorno più importante della storia repubblicana, significa opporsi al tentativo di unificare chi ha combattuto per la libertà e l’indipendenza nazionale e chi aderì alla RSI, anche con buone intenzioni: i primi erano dalla parte della ragione, i secondi del torto. Significa ricordare il sacrificio degli appartenenti a un ampio schieramento (cattolici e socialisti, azionisti e militari, monarchici e comunisti) che insieme si unirono per un alto ideale, e che, forse senza esserne pienamente coscienti, gettarono le basi per la Costituzione Repubblicana, che trasuda antifascismo in ogni parola, in ogni segno di interpunzione.
Anche oggi, come 80 anni fa, si avverte la necessità di un’idea unitaria di Paese per far fronte ai grandi problemi; la necessità di uscire dalle attuali ambiguità per fare fronte alle urgenze e necessità del Paese e, come nell’ultimo dopoguerra, del mondo intero.
Ottant’anni dopo viene da chiedersi cosa resta di quell’antifascismo? Molto, pur senza tacere segnali di stanchezza, cedimenti su posizioni celebrative.
Perché oggi facciamo i conti, alcune volte inconsapevolmente, con un fascismo rarefatto, diffuso, avvolgente se non ammaliante; una categoria del vivere quotidiano non solo dei regimi autoritari, ma latente anche nella vita quotidiana delle democrazie. Un impulso illiberale che si camuffa da misura protettiva, da difesa identitaria, dall’esaltazione del leader maximo. L’altro — il diverso — è percepito come minaccia permanente. “Aggredire o armarsi per difendersi” rischia di diventare un codice di comportamento collettivo, soprattutto nel mondo digitale dove dinamiche inquietanti, anche in forme violente, sono la quotidianità.
Le piattaforme online generano nuove false “piazze”: masse che si raccolgono intorno ai leader (talvolta con livelli culturali ed etici imbarazzanti) in una ritualità del consenso. Il “like” sostituisce la riflessione e l’applauso, creando l’illusione di partecipazione, alimentando followers che, per definizione, non partecipano:
appartengono; non pensano: aderiscono.
Una nuova forma di “fascismo” che non si manifesta o si nutre con marce e divise, ma con algoritmi e fedeltà. Si palesa con messaggi brevi, indica un nemico, promette protezione, l’uomo solo al comando, soluzioni semplici per problemi complessi, linguaggi da osterie, fa e disfa nell’arco di poche ore. Ecco perché oggi l’antifascismo deve essere non solo memoria, ma lettura lettura attiva del presente. C’è un luogo che sarebbe elitario per produrre anticorpi contro il rischio di una afasia culturale ed etica: la scuola.
Una scuola viva deve – ancor prima di compiti, contenuti, valutazioni e… test – alimentare spirito critico, insegnare a distinguere, a scegliere, ad inventare, a riconoscere e rispettare l’altro. La scuola deve essere speranza: speranza necessaria da creare, alimentare e custodire nel linguaggio di ogni giorno, soprattutto all’interno di un Paese che ha l’ardire – e la stupidità – di divedersi sul 25 aprile e… sulla morte del Pontefice.
Una scuola che trovi o ritrovi la sua grande forza per far sì che l’antifascismo non sia solo esercizio di memoria, ma capacità di saper scrivere pagine nuove e di saper leggere “il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura” (De Andrè). “Credetemi – scrisse Giacomo Olivi, martire della Resistenza a 19 anni – lo Stato siamo noi stessi. Non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere; pensate
che tutto è successo, perché qualcuno …non ne ha voluto a che sapere”. Buon 25 aprile a tutti, nessuno escluso!
*rettore Convitto Filangieri di Vibo