Abbattere il muro della rassegnazione per non consentire più a nessuno di chiederci “ma cu ta fici fari?”
Restare in Calabria o tornarci dopo aver assaporato altre realtà dove diritti e servizi pubblici sono assicurati ci pone dinnanzi alle perplessità di chi si è già arreso. Ma noi no, perché abbiamo la capa tosta
Rumore di passi che dalla strada, rimbombano fin sui muri delle case disabitate, nelle piccole e strette vie del paese. Non un viso, nessun rumore di vita dalle poche finestre aperte. Eppure questi piccoli centri, fino a non molti anni fa, riecheggiavano di vita. Vi erano le donne sedute sull’uscio di casa a scambiare parola con le vicine, i bambini a giocare in piazza o per le vie, gli uomini a fare capannello, le chiese aperte, il passaggio di qualche visitatore a chiedere indicazioni. I negozietti aperti e frequentati, indice di buona salute della comunità, punto di riferimento per ogni bisogno. Oggi, invece, pesa il silenzio sulle spalle, nella testa e nel cuore, di chi qui, ha deciso di vivere. Credo che mai, come in questo momento storico, sia importante parlare di speranza ma soprattutto, darle concretezza attraverso la partecipazione di tutti. Lo dobbiamo a noi ma ancor di più ai nostri figli, nei quali cresce sempre più la consapevolezza dell’abbandono della propria terra, per cercare se stessi e il proprio futuro altrove.
Parlare di speranza in Calabria, ha un valore sicuramente maggiore che in qualsiasi altra regione d’Italia. Da un lato, l’abbandono dei luoghi di chi va via per cercare maggiori opportunità e, dall’altro, di una parte di chi resta, incapace di guardare più in là dei propri interessi, resta il motivo principale di uno stato di degrado dei luoghi, delle comunità e, del senso stesso di appartenenza al territorio. Stiamo assistendo ad una vera e propria, tragica, distruzione del tessuto sociale, di quelle relazioni che tenevano in vita eventi, tradizioni, legami tra le famiglie, delicati sistemi economici e politici che erano linfa vitale della nostra quotidianità.
Un immenso senso di vuoto che si allevia nel periodo in cui ritornano nel paese natio i giovani andati a vivere lontano e, che si acuisce ad ogni loro nuovo distacco. Per chi resta, è una ferita che si riapre a ogni nuova partenza ma, è anche la consapevolezza, di aver accettato, per troppo amore, per troppa speranza, per troppo radicamento, questo tipo di patimento. Un patimento che però, ha raggiunto un livello non più tollerabile, fatto di uno stato di rassegnazione di molti, che penalizza anche chi vorrebbe poter fare di più, chi merita di 1 più. Ho in mente come tatuata nel cervello, una frase che il mio carissimo e fraterno amico Michele Florio, lesse in piazza durante la nostra appassionata campagna elettorale per provare a dare il nostro contributo al territorio che vivevamo: “Ma cu ta fici fari?”. Michele, raccontando ciò che lo spinse a mollare una vita stabile, fatta di certezze sociali, lavorative, e quindi economiche a Milano, spiegò nel suo discorso come in molti qui, nel suo paese di origine, gli chiedessero: “Ma cu ta fici fari u ti ndi veni nta Calabria? Cu ta fici fari u ti fai n’attività cca? Cu ta fici fari u ti menti nta politica?” Sapete quale è stata la risposta del mio amico? “lo penso che con il “cu tu fici fari” non si può pensare di cambiare e non si va da nessuna parte. Sono tornato nella mia terra, per stare più vicino alla mia famiglia e far crescere qui i miei figli. Qui dove non ci mancherebbe nulla per vivere bene ma dove siamo pronti a soccombere, al primo “no!”, al “poi vediamo”.
lo voglio restare qui, perché voglio fare di più e perché so, che ne varrebbe la pena se tutti facessero come me e, come tanti altri, che la pensano come me”. In Calabria, ogni negazione diventa un muro. Più rassegnazione c’è, più il muro si fa alto. Più lasciamo ai pochi il potere di decidere per le nostre vite, più perdiamo la forza di buttare giù quei muri che ci dividono dal nostro futuro. Sono gli stessi muri che si chiudono attorno a noi, diventando prigioni, sistemi inespugnabili alla speranza e al benessere diffuso, ad ogni prospettiva di rinascita. Un sistema contorto che anziché individuare nei colpevoli coloro i quali, consapevolmente, alimentano la rassegnazione, penalizza i pochi che qualcosa per la propria terra vorrebbero davvero farla: “i diversi”. Chi ce lo fa fare di restare qui e amare ancora questa terra nonostante tutto? La speranza che presto i suoi abitanti aprano finalmente gli occhi e assaporino il gusto amaro dell’ingiustizia quando sono ammalati e non possono curarsi come è loro diritto, quando su strade non sicure perdono la vita i nostri figli o debbono aiutarli a riempire la valigia e andar via, più lontano possibile, a cercare possibilità lì dove vive gente che gli occhi li tiene aperti e conosce bene il senso del diritto e del dovere, che si avvale del dissenso come mezzo critico per mettere a posto quello che non va. Senza paura. Chi ce lo fa fare? La testa dura da calabresi che abbiamo, che non riesce a stare chinata davanti a nessuno, perché deve guardare bene quello che è il futuro che ci meritiamo.