giovedì,Novembre 21 2024

La storia | Quando scoprii di essere un terrone: abitavo a Bergamo, avevo 8 anni

Il conflitto Nord-Sud che toccava pure i bambini nel racconto di chi non sapeva cosa fosse la Padania e non capiva il motivo di quelle discriminazioni

La storia | Quando scoprii di essere un terrone: abitavo a Bergamo, avevo 8 anni

Quel giorno arrivai a scuola di buon umore, come sempre. D’altronde, un bambino di otto anni perché mai avrebbe dovuto affrontare una giornata con spirito dimesso? Ancora non sapevo cosa mi avrebbe aspettato. Dicevo che arrivai sereno e prima di tutti, come sempre. Iniziai a vagare per la classe sotto gli sguardi dei compagni che arrivavano alla spicciolata. L’insegnante non ci aveva ancora raggiunti. Su un muro un’ampia cartina geografica ritraeva tutta l’Italia, da Nord a Sud. Fu proprio davanti ad essa che mi fermai, guardando tutto lo Stivale e tracciando una linea immaginaria da Bergamo, dove mi trovavo, fino a Tropea, patria dei miei genitori e meta fissa delle nostre vacanze. Era un giochino infantile che ripetevo spesso, orgoglioso di dimostrare a me stesso le mie abilità geografiche. Distratto dalle decine di località davanti ai miei occhi, non mi accorsi dell’ingresso di Marco, un compagno col quale avevo legato particolarmente, al punto che il giorno precedente ero stato a casa sua a giocare. Entrato in classe come una furia, si spogliò di cartella e giubbino e mi puntò il dito contro spingendomi al muro, con un’aria inquisitoria che mi ammutolì: «Te sei un terrone!», iniziò a gridarmi, con un livore che non trovava spiegazione ai miei occhi. «Tutti quelli che vivono sotto questa linea sono terroni», continuò, indicando il Po come confine immaginario della sua terra virtuosa. «Il tuo cognome è un cognome terrone, te non sei mica bergamasco!», insisteva con il tono cupo e gutturale tipico della sua cadenza valligiana. Ogni frase emessa conteneva la parola “terrone”, come se volesse marcare a fuoco le colpevoli differenze (?) etniche tra di noi. Sotto quella pioggia di aggressività, reagii impulsivamente, come un bambino di otto anni spalle al muro che si vede attaccato senza motivo: mi lanciai contro Marco generando una zuffa che venne sedata dall’arrivo dell’insegnante, la quale chiese spiegazioni a entrambi. Marco rispose per primo, convinto della correttezza di quelle azioni: «Mi ha picchiato perché gli ho detto che è un terrone, perché sotto questa linea sono tutti terroni», indicando sempre il confine padano. 

La maestra, bergamasca anche lei, inorridita da quelle parole, lo spedì al posto rimproverandolo severamente. Non ricordo se disse qualcosa anche a me, ma, considerando la sua caratura, credo che abbia cercato di consolarmi. Restai imbronciato tutta la mattina per l’accaduto, convinto che quelle parole fossero state messe in bocca a Marco dai genitori, probabilmente preoccupati da quella rischiosa amicizia che stava nascendo. Ero un bambino tranquillo, a volte vivace, ma pur sempre un bambino. Questo, però, non importava. Avevo una pecca indelebile: ero portatore sano di geni terroni e, forse, avrei anche potuto infettare i miei compagni, quindi, come diceva la pubblicità con la mela verde in voga a quel tempo, «prevenire è meglio che curare». L’amicizia con Marco finì lì, non frequentai più casa sua, e questo non per mio volere. Legai con altri compagni, alcuni bergamaschi purosangue, altri infettati dai miei stessi geni. Quell’episodio lo ricordo ancora adesso, dopo trent’anni, era il 1985, perché mi ha fatto capire molte cose. Una su tutte: contro determinate convinzioni e dogmi è inutile discutere, è solo fiato sprecato, soprattutto se questi “principi” ti vengono inculcati sin dalle fasce dalle persone che ti hanno dato la vita e che dovrebbero indicarti la retta via. Le stesse persone che sono arrivate al punto di prendere un atlante per mostrarti i confini invalicabili della loro civiltà superiore. [L’articolo prosegue sotto la pubblicità]

La conferma a tutto questo la ebbi un paio d’anni più tardi, quando annunciai il mio trasferimento definitivo in Calabria. Katia, una compagna di classe e giochi sempre cordiale, mi chiese: «Ale, ma giù in Calabria che lingua parlate?». Io la guardai per qualche secondo, per capire se fosse stato uno sfottò o se il Meridione le fosse stato dipinto davvero come una terra straniera, selvaggia e remota. Poi risposi con un’ironia che, ancora oggi, mi sorprende, visti i miei dieci anni: «Il francese». «Ah. E come fai? Devi impararlo?». «Eh, ma già lo conosco, lo parlano i miei genitori».

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