Lettere dal carcere | “Art. 4 bis: quando la reclusione incattivisce anziché rieducare”
Un detenuto vibonese apre uno spaccato sull’ordinamento penitenziario, segnalando alla classe politica una «norma superata che preclude ai meritevoli la possibilità di accedere a misure alternative»
Apre uno spaccato sul funzionamento del sistema carcerario italiano, nonché sulla condizione di migliaia di persone attualmente ristrette negli istituti di pena, la lettera che a ridosso delle festività natalizie un detenuto vibonese ha inviato ai suoi familiari – previa autorizzazione alla diffusione concessa dall’amministrazione penitenziaria – per attirare l’attenzione sullo stato in cui vivono coloro che sono reclusi ai sensi dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Regime speciale che stabilisce che alcune categorie di reati debbano essere sottratti per legge alla rieducazione ed al reinserimento nella società, non prevedendo l’accesso a benefici come lavoro all’esterno, permesso premio, misure alternative, ecc. Argomento già più volte al centro del dibattito politico, considerata la rigidità del regime in questione da molti ritenuto in contrasto con i dettami costituzionali che vedono nel carcere uno strumento di rieducazione. Per questo il detenuto vibonese, che sta scontando una pena definitiva in un istituto penitenziario del centro Italia, si rivolge proprio alla classe politica asserendo come: «La legislazione del sistema penitenziario, con le sue innumerevoli carenze e lacune, non si rispecchia più in quelle reali opportune esigenze sociali da tutelare per cui in tempi pregressi era stata pensata. In altri termini, per dirla breve: “legislazione di emergenza scaduta che dura da una vita” e che avverte il bisogno di essere rivisitata, rivalutata, innovata e resa corrispondente alle attuali problematiche attinenti l’odierna realtà carceraria. Appare pacifico infatti – prosegue la lettera -, stanti gli ultimi aggiornamenti Istat e i continui ammonimenti da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, che il sistema penitenziario nazionale sia al collasso. Risale infatti al 1975 l’ultima riforma dell’ordinamento penitenziario, alla quale in estrema ingravescenza si sono succedute ultronee modifiche dettate da leggi ordinarie, circolari Dap e direttive europee. Quella di cui si discute è la lex del 27 luglio 1975, n. 354, pensata e applicata, ora come allora, in tutta ostatività. Lex che all’art. 4 bis si pone di fronte ad un ripugnante “ricatto di Stato” favorendo e alimentando uno scellerato rimpiazzo: ti suggerisce – in altri termini – di mettere in croce un altro povero Cristo al tuo posto se vuoi accedere ai benefici previsti a norma di legge». Rivolgendosi ancora direttamente «ai nostri preparatissimi e sempre ben attenti onorevoli politici», il detenuto vibonese rimarca come «apprezzabili dati empirici sostengono che non è aumentando le pene a seguito dei cosiddetti reati stagionali o bloccando i termini di prescrizione che riuscirete a debellare il fenomeno criminogeno. Tantomeno costruendo nuove carceri e precludendo quella possibilità per i meritevoli di accedere a quelle forme di misure alternative al carcere, specie per chi ha dato atto di una seria revisione critica del passato inserendosi a pieno nei meandri delle condizioni insite nel termine letterale proprio: rieducazione. A nulla – prosegue – serve mantenere alto quel pseudo stato di emergenza, di pericolo permanente, giustificato da quella ormai stereotipata e obsoleta motivazione “di necessità e urgenza” che non fa più notizia e che all’odierno risulta inverosimile. In queste condizioni la carcerazione non tende a rieducare, per come dettato dall’art. 27 della Costituzione, ma a punire, a incattivire».