L’inferno di fuoco di Tropea e quella lezione che dobbiamo ancora imparare
Ad un anno dall’emergenza incendi che si abbatté sulla cittadina tirrenica e su buona parte del Vibonese, nulla sembra essere cambiato sul piano della prevenzione e della sicurezza. Ecco il ricordo di chi visse in prima persona il furore delle fiamme
Un anno fa, l’inferno. Come decine di altre località calabresi, anche il mio paese, Tropea, era avvolto dalle fiamme, completamente circondato da lingue di fuoco che avanzavano polverizzando ogni filo d’erba o albero centenario. Era un fiume rosso che si espandeva a delta, una colata lavica che non lasciava scampo. Ricordo che dovetti portare via la mia famiglia perché, a pochi metri da casa, le fiamme avevano raggiunto i dieci metri d’altezza. L’aria era irrespirabile: fumo cenere scintille, gente che si aggirava cadaverica per le strade, altri che minimizzavano, ma negli occhi una preoccupazione che si poteva toccare. Era un’enorme bolla irrazionale, un set cinematografico impazzito. Sirene e fumo. Sirene e fumo. Sirene e fumo. Tutto reale, tutto spaventoso e reale. In quella situazione, l’unica via di fuga era il mare, un Nettuno che qualche mese prima, furioso, aveva distrutto parte del lungomare, portando via il pane alle famiglie che su di esso avevano puntato. Quella stessa divinità che oggi continua ad avanzare senza sosta, minuto dopo minuto, divorando spiagge e futuro. Un paese tornato indietro di mille anni, quando doveva controllare lo specchio d’acqua da cui arrivavano i temibili saraceni e guardarsi le spalle per le scorribande dall’entroterra.
Allora il pericolo veniva dagli uomini. Esattamente come oggi. Incendi appiccati volontariamente per chissà quale losco fine, incuria ed erbacce che alimentano fiamme, spiagge sempre più risicate per la scarsa pulizia dei torrenti, fiumare come discariche a cielo aperto, abusivismo delinquenziale. Tutto sotto gli occhi di tutti. Connivenza e indifferenza hanno un prezzo che stiamo pagando caro, ma non ce ne rendiamo conto: ogni giorno qualcuno lascia questa terra perché sfiancato dal sopportare le sue storture. È un’emorragia destinata a non arrestarsi, una ferita aperta che non cicatrizza mai perché bagnata dalle lacrime delle madri che salutano i propri figli sapendo che li vedranno solo nella foto di una chat che non sanno utilizzare.
E allora è bene prendersi le proprie responsabilità, ammettere che il peggiore nemico dei calabresi sono i calabresi stessi. Non i settentrionali, non i neri, i gialli o i blu. I saraceni di oggi sono quelli che si piangono addosso e muoiono per mano del loro stesso vittimismo, ma che, di fronte a un’accusa di connivenza, fingono di indignarsi facendo il gioco di chi costruisce una vita su corruzione e malaffare.Il complesso di inferiorità che ci portiamo dentro dalla nascita e che ci spinge a scovare ovunque positività per sbandierarle ai quattro venti urlando «siamo bravaggente!» è l’arma con cui la Calabria si fustiga quotidianamente, un circolo vizioso dal quale si fatica ad uscire perché l’autocelebrazione crea dipendenza e offusca la ragione.Quando si seppellirà quel flagello, quando si capirà che in questa terra si sta consumando un matricidio senza sosta proprio per quest’indole paranarcisistica, allora le ferite si potranno rimarginare, lasciando cicatrici come monito per le generazioni disposte a disinstallare, una volta per tutte, quella triste chat su cui cesseranno di infrangersi lacrime e speranze.
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