L’intervento | Il cinghiale, “eterno problema” che a molti fa comodo non risolvere
L’annosa questione, fonte di preoccupazione per agricoltori del Vibonese, continua ad essere affrontata tra demagogia inconcludente e pressappochismo disarmante. Ma le soluzioni ci sono, basta avere l’onestà di vederle
Nonostante lo abbia fatto in ogni circostanza e pur cominciando a dubitare del vecchio aforisma secondo cui “le cose ripetute giovano”, ribadisco che sono il primo a riconoscere il danno che il suino arreca agli agricoltori (uniche vittime dell’ungulato), il che però non mi impedisce (anzi!) di registrare la demagogia inconcludente e il pressappochismo disarmante con cui si continua ad affrontare la situazione.
Una situazione, è bene ricordarlo, creata anni fa a bella posta dai cacciatori per il loro nuovo e redditizio passatempo (in Calabria si è passati dai 1500 cinghialai del 2004, agli oltre 13.000 del 2011); il tutto con la complicità delle amministrazioni provinciali per i soliti interessi elettorali. All’epoca dei famigerati ripopolamenti, che sono all’origine della diffusione dell’ungulato sul nostro territorio e dei guai conseguenti, nessuno, compresi molti agricoltori-cacciatori, si oppose ai “lanci”, probabilmente perché talmente divorati dal sacro fuoco di Diana, da non preoccuparsi per l’oltraggio a Cerere che si stava compiendo (salvo poi piangere sul cinghiale prolificato).
Una volta scoperchiato il vaso di Pandora, ecco allora che si stenta a rinchiuderlo, evidentemente perché quello che per alcuni è un male (leggasi agricoltori e automobilisti), per altri (leggasi migliaia, tra cacciatori, ristoratori, degustatori di pappardelle ecc.) è un bene irrinunciabile. Anzi, più danni vengono arrecati e più ci si può proporre come i salvatori della patria, in un circolo vizioso senza fine.
Non è un caso che la caccia al cinghiale si chiuda al 31 dicembre, pur potendosi estendere fino al 31 gennaio, e questo non perché ai cacciatori dispiaccia uccidere le scrofe già incinte in quel mese, ma proprio perché, con le nascite di marzo-aprile, ci si vuole assicurare i carnieri per l’apertura successiva. Nessuno dei circa duemila cinghialai in provincia spende soldi per un congelatore o una carabina che può schiantare una bestia di cento chili, per poi sparare …alle allodole.
Infatti, dopo anni di caccia praticamente senza limiti di carniere e migliaia di animali abbattuti, dopo i vari interventi, spacciati per risolutori, di “selettori” a caccia chiusa (non a caso osteggiati dai cacciatori regolari), nonostante il bracconaggio notturno e l’uso di lacci nelle campagne, gli allarmi per i danni continuano a ripetersi, fino a puntare l’indice sull’oasi dell’Angitola; come se fosse il rifugio-serbatoio di tutti i cinghiali della provincia, visto il cosiddetto “effetto spugna” che risucchierebbe di giorno i cinghiali, pronti a scorrazzare nottetempo per chilometri e chilometri. Sulla base di quali dati?
Anche qui: che i cinghiali siano arrivati nell’oasi lo so e lo vedo benissimo, né posso sostenere che, in quanto amico dichiarato del mondo animale, mi ritenga al sicuro da una eventuale carica di una scrofa con striati al seguito o di un verro inferocito; ma alcune osservazioni vanno fatte per riportare il fenomeno nella sua effettiva dimensione, al di là di certe affermazioni, giustificabili solo in chiave di facile consenso e di pacificazione sociale.
L’oasi di protezione, nonché facente parte del Parco Regionale delle Serre, è di 875 ettari, di cui circa 200 coperti dal lago (e quindi inutilizzati dal porco selvatico se non per una rinfrescatina). Ne rimangono circa 650 (cioè 6,5 Km2, appena lo 0,5% del territorio provinciale) da cui vanno sottratte altre superfici non utili per fini alimentari (cave, frutteti recintati ecc.). Prendendo ad esempio la densità di popolazione minima riscontrata nella tenuta (chiusa) di Castelporziano (9 capi per 100 ettari), che è il doppio di quella registrata generalmente a livello europeo (5 capi per 100 ettari), il territorio dell’oasi non dovrebbe ospitare in teoria che qualche decina di cinghiali, con tutte le oscillazioni demografiche tipiche della specie. Si tenga conto che alcune squadre di cacciatori, ciascuna per il “proprio” territorio, di cinghiali ne abbatte in certe annate anche più di 60-70, il che è provato dall’esame dei carnieri annuali, magari aggiornati per difetto.
In merito poi alla mobilità dei cinghiali, in mancanza di dati locali oggettivi ricavabili da catture e ricatture di individui marcati, riportiamo le conclusioni delle linee guida per la gestione del cinghiale redatte dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, l’ex Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (oggi Ispra), in collaborazione con una fonte insospettabile quale l’Atc (e quindi cacciatori) di Bologna BO3: “la mobilità dei cinghiali risulta piuttosto contenuta rispetto a quanto normalmente si crede e gli spostamenti importanti riguardano solo una piccola parte della popolazione (spesso inferiore al 10%)”.
Dall’indagine svolta nello stesso Atc è emerso che “circa il 60% dei marcati è stato ripreso ad una distanza non superiore ai 3 km”, a conferma di quanto verificato in altre aree sia italiane che europee e che “gli spostamenti importanti (oltre i 10 km) dei cinghiali sono da considerarsi occasionali…”.
Se dunque il problema fosse rappresentato dalla popolazione che gravita nell’area protetta, di conseguenza non si dovrebbe riscontrare la presenza di cinghiali in zone distanti oltre una decina di chilometri, il che, evidentemente, non è. Anzi, è appurato che la stessa pratica della caccia in battuta, oltre a provocare una destrutturazione delle popolazioni, con una riduzione dell’età media dei componenti e una percentuale elevata di giovani, causa un più accentuato erratismo degli stessi, con conseguente aumento dei danni alle colture.
Detto ciò, eventuali interventi di controllo numerico all’interno di un’area protetta come l’Angitola (oltretutto Zona Speciale di Conservazione secondo la Direttiva Habitat) non può prescindere comunque dal rispetto del quadro normativo che prevede (Art. 19 legge 157/92), l’adozione di metodi ecologici come primo approccio e gli abbattimenti solo nel caso in cui la loro inefficacia sia stata verificata dall’Ispra, quindi come extrema ratio.
Sono anni ormai che, prima la provincia, poi non so chi, affida la soluzione del problema a chi ne è il responsabile e “utilizzatore finale”. Risultato? Ogni anno siamo punto e a capo. Anche se richiede più impegno (e più soldi) rispetto all’allegra battuta, perché non attuare invece una strategia diversa, finalizzata alla protezione delle colture e quindi alla prevenzione dei danni mediante sistemi di occlusione meccanica o elettrica? La gestione del cinghiale nelle aree protette prevede inoltre l’uso di recinti di cattura, sia fissi che mobili, i cosiddetti “chiusini” e, in alternativa o in aggiunta, la predisposizione di trappole con porta a ghigliottina.
Ripeto: là dove sono stati usati, i chiusini, hanno dato sempre buoni risultati, vista la golosità del cinghiale e la possibilità di catturare soprattutto piccoli, giovani e femmine. L’unico problema sarebbe quello di impedire che i cinghiali, una volta catturati, non vengano di nuovo liberati e i chiusini distrutti. Ma stavolta non si tratterebbe di fanatici attivisti di “Animal liberation…”. A buon agricoltore, poche parole.
*Responsabile settore conservazione Wwf Vibo Valentia
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