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Discarica dei veleni a Porto Salvo, le paure di una comunità – Video

L’invito del parroco Scordamaglia, i timori palesati dai cittadini e il doppio ruolo “scomodo” del sindaco. Viaggio in una frazione in cerca di rassicurazioni

Discarica dei veleni a Porto Salvo, le paure di una comunità – Video
Il sindaco di Vibo Valentia Maria Limardo

Il doppio ruolo scomodo, di custode giudiziario del sito inquinante sequestrato e di sindaco di una comunità preoccupata, Maria Limardo lo vive ammettendo una storica inoperosità degli enti e rivelando l’inattività dei proprietari. «La società che possiede il complesso industriale abbandonato – spiega il primo cittadino di Vibo Valentia – non si è fatta sentire, ma io ho scritto per informare di aver aperto un procedimento per intimare la rimozione dei rifiuti».

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Francesco Mirigliani, l’avvocato catanzarese, fratello dell’ex assessore regionale Raffaele, dunque deve ora fare qualcosa – parallelamente all’inchiesta della Procura che indaga sullo stoccaggio di rifiuti nell’area dell’ex Cgr – in una vicenda che ha diversi contorni opachi. «Siamo arrabbiati e preoccupati – sostiene Domenico Francica, un avvocato che vive nella frazione Porto Salvo – per l’elevata radioattività rilevata durante le operazioni precedenti al sequestro». Sentimenti di cui si è fatto interprete anche il parroco, don Nicola Scordamaglia, che domenica scorsa – dopo la messa in piazza per la festa patronale – ha invitato a parlare proprio il sindaco.

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«Io non sapevo di chi fosse la proprietà del sito – confessa Limardo – ma non è questo che mi preoccupa, quanto invece la circostanza della scoperta di una fabbrica dei veleni. Che io sappia, il Comune nessuno intervento ha prodotto nel 2018 a seguito di un incendio che si era sviluppato nel complesso industriale di 10 ettari». Questa inerzia degli uffici, che risale all’epoca in cui sindaco era Elio Costa, si inserisce nell’ambito di una lunga storia fatta di oblio e dimenticanza, rispetto a un sito che, localizzato in un’area industriale, per il suo mancato riutilizzo – ora macchiato anche dai sospetti sulla radioattività rilevata dall’Arpacal – chiama in causa la responsabilità anche di Corap e Provincia. Ma questa è un’altra storia.

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