venerdì,Dicembre 27 2024

Inquinamento da plastiche, la biologa vibonese avvisa: «Stiamo uccidendo il Mediterraneo»

Diletta Manfrida, da anni si divide tra Messina, Roma e le Isole Canarie, dove ha approfondito le competenze in materia di oceanografia, lancia l’allarme sul proliferare della meduse e la scomparsa dei grandi pesci pelagici: «La ricchezza del nostro mare è a rischio»

Inquinamento da plastiche, la biologa vibonese avvisa: «Stiamo uccidendo il Mediterraneo»

di Monica La Torre

Finalmente estate. Eppure, lo scorso week end, il primo davvero caldo e soleggiato dopo la primavera più fredda degli ultimi decenni, chi ha scelto di andare al mare è stato costretto a rinunciare a tuffarsi. In alcune località calabresi, infatti, col caldo hanno fatto la loro ricomparsa le meduse, a migliaia, tanto da indurre numerosi bagnanti a restare sulla spiaggia. Le ormai periodiche invasioni di meduse sono solo un segnale dei profondi cambiamenti in atto nel Mare Nostrum. Ne abbiamo già parlato nei giorni scorsi, quando la tarda primavera aveva visto un susseguirsi di “Giornate dell’ambiente” tanto meritorie quanto incapaci di mettere un freno alle cattive abitudini dei calabresi, ed avevano contribuito a mettere in evidenza l’avanzare dei materiali inquinanti, delle plastiche, dei cambiamenti climatici, della pesca intensiva, della cementificazione delle coste, dello sfruttamento intensivo delle risorse marine. Se tutto il Mediterraneo è messo maluccio, sottoposto ad un’antropizzazione con pochi eguali nel mondo, in rapporto alla sua estensione, la nostra regione offre spesso panorami desolanti. Arenili scomparsi, acque inquinate, fauna decimata, paesaggio costiero inghiottito da una colata di cemento: in Calabria, più che altrove, il mare va tutelato. «Perché il mare è il ricettacolo ultimo di tutto ciò che viene da terra. La destinazione finale ed ineluttabile di tutti i nostri rifiuti. Ma è, al tempo stesso, il nostro sistema sanguigno. La terra è il corpo umano, ed il mare è il suo sangue. Il veicolo del suo nutrimento».

A parlare appassionatamente di questo rapporto simbiotico che tendiamo purtroppo a dimenticare, è Diletta Manfrida, biologa marina vibonese, che da anni si alterna tra Messina, dove ha studiato, Roma, dove si è specializzata, e le Isole Canarie, dove ha approfondito le competenze in materia di oceanografia. È lei ad affrontare la contraddizione in termini, che affligge l’uomo moderno, sordo tanto alla consapevolezza quanto alle sirene della sensibilizzazione. Ed è sempre lei a spiegare le cause di questo stato d’emergenza ambientale che ben conosce, anche e soprattutto in Calabria.

«La nostra regione ha un mare e delle coste uniche e preziose – dichiara -. Ma in realtà tutto il Mediterraneo è uno scrigno di meravigliosa biodiversità. Ricco di organismi e specie che lo abitano da 500 milioni di anni. Basti pensare che dei quasi due milioni di specie che abitano il pianeta, un milione e 900 mila per l’esattezza, il 18% vive qui. E questo, nonostante il Mare Nostrum costituisca solo lo 0,8% della superficie terrestre, e lo 0,3 % del volume. La sua caratteristica principale – prosegue – è la varietà degli endemismi, l’insieme degli organismi e delle specie che vivono solo nel Mediterraneo, mare talmente ricco da ospitare ben 8.500 organismi marini macroscopici, ovvero visibili ad occhio nudo. In realtà, oggi si fa ben poco – aggiunge –. Stiamo assistendo giorno dopo giorno al progressivo indebolimento della sua biodiversità, a causa dell’azione dell’uomo, sia diretta che indiretta. La causa, una ed una sola: l’antropizzazione. Il massiccio consumo di suolo e di risorse in modo inappropriato è ormai visibile in qualsiasi luogo, ed in qualsiasi momento, ma è anche misurabile dagli indicatori biologici, ovvero dei sistemi biologici che, mediante variazioni identificabili del loro stato (dal punto di vista biochimico, fisiologico, morfologico, ecologico, ecc.), rappresentano la risposta degli ecosistemi ad una situazione di stress e forniscono informazioni sulla qualità dell’ambiente (o di una parte di esso)».

I dati. «L’erosione costiera è sotto gli occhi di tutti. Quello che invece tendiamo a dimenticare, è che l’80% dell’inquinamento da rifiuti è fatto di materiale plastico. E questo, non scompare: anzi, rimane disperso, si trasforma, inizia ad interagire con le altre sostanze, entrando nella rete trofica e quindi sulle nostre tavole. Lo stesso dicasi per l’inquinamento da idrocarburi, il petrolio, il traffico delle migliaia e migliaia di navi che attraversano i mari: l’inquinamento prodotto da sversamenti petroliferi che avvengono durante le fasi di trasporto e durante le attività di estrazione del greggio fa sì che ogni anno lo 0,1% di tutto il trasporto di idrocarburi del Mediterraneo venga sversato in mare. Anche questo, in parole povere finisce in bocca ai pesci, e da lì sulle nostre tavole. Ce li mangiamo noi. Ripeto: il mare, è il ricettacolo ultimo di tutto ciò che proviene dalla terra, dove sedimentano tutti i rifiuti del mondo».

E in superficie? «In superficie non va certo meglio. Basti pensare alla Calabria: il 65% della costa, nel giro di 30 anni, è stato sacrificato, inghiottito, costruito. Alberghi, industrie, abitazioni. E ognuna di queste strutture, porta sedimenti in mare. Porta terra, che ha quasi distrutto la flora e la fauna marina».

Qual è il segnale sommerso più evidente, di questo stato di “malattia”? «La vittima più importante, è la posidonia, una fanerogama marina e non un’alga. Ovvero, una pianta superiore che ha radici, fusto, foglie, fiori e frutti, capace di ossigenare le acque con la fotosintesi, di nutrire la fauna marina e dar protezione dai predatori, e costituisce l’habitat ideale per la riproduzione di migliaia di specie. Oggi, è quasi scomparsa, e laddove è presente, è malata, sporadica, degradata. Ha perso la sua capacità di fornire il servizio ecosistemico che la rendeva così preziosa. E tutto per colpa dell’inquinamento marino da sedimenti e da veleni, da terra e materiale che finisce in mare sempre più spesso, e in quantità sempre maggiori, a causa soprattutto della cementificazione delle coste. Se si considera che la crescita verticale è di 1,5 cm per anno, mentre il processo di sedimentazione alla base della prateria può raggiungere i 15 cm per anno, si capisce come la differenza nella cinetica dei due processi determina nel tempo la rarefazione, e nei casi più gravi la scomparsa, della prateria. Nessuna pianta sarebbe capace di sopravvivere ad un simile patimento. È vero che le praterie di posidonia rappresentano solo una delle comunità climax del Mediterraneo, ossia il massimo livello di sviluppo e complessità che un ecosistema può raggiungere, che sino a ieri fornivano al mare i loro servigi, che stiamo perdendo. Ma è tra le più preziose. Una pianta che con le sue radici stabilizza sia il litorale sia i fondali riducendo l’azione erosiva del moto ondoso su questi ultimi».

Quali sono le conseguenze più evidenti di questa criticità? «Una comunità che muore, uccide anche tutti gli organismi che vi si nutrivano, vi trovavano rifugio si riproducevano. E morti loro, muoiono anche i pesci più grandi. Questo, e lo sfruttamento intensivo di una pesca incontrollata ed illegale, ha messo in crisi, anche in Calabria, l’intero ecosistema. E i più minacciati, i grandi pelagici, stanno progressivamente diminuendo dai nostri mari».

Sono tutti concordi nel dire che non si pesca più come una volta. È vero? «La pesca intensiva sta minacciando diverse specie. Pesci come il tonno, il pesce spada, la spigola, la ricciola, ma anche squali, razze, balene e tartarughe marine: i pesci che vivono in acque libere, con capacità natatorie, sono i più a rischio, sia per colpa dell’overfishing, che dell’inquinamento. La pesca non sostenibile è una minaccia seria, per la riproduzione. Il mancato rispetto dei periodi di ferma, il pescare animali giovani, prima della riproduzione; l’utilizzo di reti a meno di 30 metri dalla costa, ovvero nella zona delle uova, dove i pesci devono aver tempo di accrescersi e diventare adulti in grado di riprodursi hanno di fatto decimato la fauna ittica nell’arco di pochi decenni».

Si è soliti sentir dire che la scomparsa dei pesci grandi abbia provocato il moltiplicarsi delle meduse… «È certamente vero che le meduse sono aumentate in modo esponenziale, ma la causa va cercata nella tropicalizzazione delle acque, nel loro surriscaldamento. Basta un piccolo incremento, a provocare grandi cambiamenti. Se pensiamo che le acque del Mediterraneo si sono riscaldate di 4 gradi in 30 anni, possiamo capire come questa “rivoluzione” abbia indotto un diffondersi esponenziale delle specie aliene: e ovviamente, le prime a risentirne, sono le interazioni della predazione. Animali che non solo sopravvivono, ma anzi si moltiplicano, a svantaggio delle specie autoctone».

Ad esempio? «Nel Mediterraneo, stiamo assistendo alla diffusione del pesce scorpione, una specie aliena importata dall’uomo anche per motivi estetici, che, finita in mare, sta riproducendosi a grande velocità. Aggressivo, predatore e velenoso, rappresenta un vero fattore di rischio. Altri rischi, li comportano le specie che si attaccano alle carene delle navi, molluschi alieni che sono anche fattore di rischio per la salute umana, essendo vettori di agenti patogeni e causa di trasmissione di allergie o malattie, ed altri ancora le meduse, che oggi, per l’aumento appunto della temperatura, sopravvivono e si riproducono anche nei nostri mari: basti pensare alla caravella portoghese, la cui presenza stabile nel Mediterraneo è ormai accertata».

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