Trent’anni senza verità sulla tragedia della Moby Prince nella quale morirono anche 6 vibonesi
Il 10 aprile 1991 lo scontro. I familiari delle 140 vittime chiedono l’istituzione di una bicamerale. Già un’altra commissione parlamentare ha accertato che non c’era nebbia come affermato invece nelle sentenze
Era una sera di primavera quella di 30 anni fa, il 10 aprile 1991, quando nella rada livornese, alle 22.25, il traghetto Moby Prince della Navarma entrò in collisione con l’Agip Abruzzo, petroliera della Snam, a 2,7 miglia al largo dal porto di Livorno. Fu l’inferno: morirono in 140 tra passeggeri e equipaggio del Moby. Tra le vittime anche 6 vibonesi, 4 originari di Pizzo – Rocco Averta, Antonio Avolio, Francesco Antonio Esposito e Giulio Timpano – e 2 di Parghelia, Francesco Tumeo e Francesco Mazzitelli, che erano a bordo del traghetto diretto ad Olbia che si scontrò con la petroliera.
La prua del Moby penetrò la cisterna numero 7: il greggio si riversò sul traghetto che si trasformò in un’immensa torcia con l’innesco delle fiamme, provocato forse dall’attrito delle lamiere. Varie le ipotesi sul perché accadde: nebbia, eccesso di velocità, un’esplosione, un guasto alle apparecchiature di bordo. Anche la distrazione: si pensò che chi avrebbe dovuto vigilare stava guardando Juventus-Barcellona in tv, semifinale di Coppa Uefa. Di certo i soccorsi arrivarono in ritardo: il traghetto fu individuato solo alle 23.35. Una ‘Ustica del mare’ per i familiari delle vittime che dopo decenni di inchieste, processi e verità distorte e demolite continuano a chiedere che il Parlamento indaghi ancora per fare una volta per tutte chiarezza. Già ha lavorato una commissione parlamentare le cui conclusioni, arrivate nel 2018, hanno portato anche alla riapertura delle indagini della procura di Livorno. I familiari – riferisce l’Ansa – chiedono ora una bicamerale che possa proseguire oltre la scadenza della legislatura, «fino al raggiungimento del suo scopo».
La vorrebbero Luchino e Angelo Chessa, figli di Ugo, il comandante del Moby Prince morto in plancia, che guidano l’associazione 10 Aprile-Familiari vittime Moby Prince Onlus, e Nicola Rosetti, vicepresidente dell’associazione dei 140 familiari vittime Moby Prince. D’accordo con la loro richiesta Silvio Lai, che da senatore ha presieduto la prima commissione la cui relazione conclusiva ha escluso che la tragedia sia riconducibile «alla presenza della nebbia e alla condotta colposa avuta dal comando del traghetto» e ha ritenuto che l’allora inchiesta giudiziaria fu «carente e condizionata da diversi fattori esterni», che la petroliera si trovava «in zona di divieto di ancoraggio’ e che il Moby ebbe un’alterazione nella rotta di navigazione. Quanto ai soccorsi, alcuni passeggeri – secondo la commissione – potevano essere salvati ma durante le ore cruciali «la Capitaneria di porto apparve del tutto incapace di coordinare un’azione di soccorso».
Ora la nuova commissione potrebbe servire per ricostruire il contesto di quella notte. Se quella precedente ebbe il tempo di sbobinare solo le conversazioni registrate sul canale di soccorso per Lai «sarebbe interessante ascoltare anche le bobine degli altri canali commerciali che registrarono conversazioni, che possono risultare utili a cercare nuovi spunti d’indagine, tra i natanti presenti in rada al momento dell’incidente». Per Lai poi ci sono «altri aspetti da chiarire, a cominciare da quell’accordo assicurativo tra Snam e Navarma teso a chiudere qualunque ulteriore accertamento sullo stato delle due navi, ormai entrambe demolite. Un altro spunto potrebbe essere quello della ricerca di eventuali rottami sul fondale». «Molto è stato fatto – si spiega dalle due associazioni – e grazie a quel lavoro che si interruppe per la fine della legislatura la procura di Livorno sta lavorando su reati non prescritti».
I familiari hanno anche fatto istanza civile contro i ministeri di Trasporti e Difesa «per inadempienze riguardo il controllo del porto di Livorno e l’assenza di soccorsi al Moby Prince” ma il tribunale fiorentino l’ha respinta “con una motivazione che non prende in considerazioni le conclusioni della commissione parlamentare, creando un corto circuito tra i poteri della Stato».