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‘Ndrangheta: processo “Genesi” al clan Mancuso, 6 condanne e 3 prescrizioni

Sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro. Assolto Giovanni Mancuso che in primo grado a Vibo era stato invece condannato

‘Ndrangheta: processo “Genesi” al clan Mancuso, 6 condanne e 3 prescrizioni

Sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro per il processo nato dall’operazione antimafia denominata “Genesi”, coordinata dall’allora pm della Dda Luciano D’Agostino, scattata nell’agosto del 2000 contro boss e gregari dei clan Mancuso di Limbadi, Galati e Prostamo di Mileto, Soriano di Filandari, Morfei di Dinami. [Continua dopo la pubblicità]

Confermata la condanna per associazione mafiosa a 6 anni di reclusione a testa inflitta in primo grado nel maggio 2013 dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto all’epoca dal giudice Antonino Di Marco (a latere i giudici Alessandro Piscitelli e Manuele Gallo) per i fratelli Diego Mancuso (per il quale la Dda in primo grado aveva chiesto 26 anni di reclusione), Pantaleone Mancuso, alias “l’Ingegnere”, Francesco Mancuso, detto “Tabacco”,  tutti di Limbadi, e per Giuseppe Santaguida, di Sant’Onofrio. 

Assolto per non aver commesso il fatto Giovanni Mancuso, zio degli altri tre Mancuso imputati, che era stato condannato in primo grado a 6 anni per associazione mafiosa (avvocati Giuseppe Di Renzo e Francesco Stilo). 

Condannato Nazzareno Prostamo (in foto in basso), di San Giovanni di Mileto, a 13 anni (14 anni in primo grado), con un capo di imputazione finito in prescrizione. 

Condannato poi Nicola Zungri, Rosarno, a 6 anni di reclusione, in luogo dei 9 rimediati in primo grado (due capi d’imputazione sono stati dichiarati prescritti). 

Prescrizione per: Pasquale Pititto, di San Giovanni di Mileto (in primo grado condannato a 8 anni); Mauro Campisi, di Monsoreto di Dinami (in primo grado condannato a 7 anni); Rocco Angiolini, di Dinami (9 anni in primo grado). Non doversi procedere per morte dell’imputato è stato dichiarata nei confronti di Michele Tavella di San Giovanni di Mileto. 

Ben 42 gli imputati giudicati in primo grado dal Tribunale di Vibo Valentia per un dibattimento durato quasi 10 anni e che ha registrato il cambio di diversi Collegi giudicanti per poi arrivare ad una sentenza con pene per complessivi 86 anni di carcere a fronte di una richiesta di condanna formulata in aula dagli allora pm della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli e Simona Rossi, pari a 379 anni di reclusione. Solo 11 le condanne e ben 31 le assoluzioni, neppure appellate dalla Procura distrettuale di Catanzaro e divenute così definitive.

Nel corso del processo di primo grado sono stati ascoltati quasi 40 collaboratori di giustizia provenienti da tutta la Calabria, ma anche camorristi e appartenenti alla Sacra Corona Unita pugliese. Tutti concordi nel delineare il potere del clan Mancuso, ma soprattutto la “genesi” della loro influenza nel panorama ‘ndranghetistico. L’operazione “Genesi” è frutto della riunione di due inchieste: “Alba”, condotta dalla Dda di Catanzaro, e “Metropolis” condotta inizialmente dalla Procura ordinaria di Vibo Valentia e poi trasmessa per competenza territoriale alla Dda di Catanzaro dall’allora presidente del Tribunale di Vibo Valentia, Giuseppe Vitale che, nel corso del processo “Metropolis”, ha emesso nel 1999 un’ordinanza di 139 pagine per spiegare l’emergere in dibattimento di un’associazione mafiosa collegata ai clan Mancuso di Limbadi, Pesce di Rosarno e Piromalli di Gioia Tauro.

Alla fine del processo “Genesi”, il Tribunale collegiale di Vibo Valentia presieduto da Antonino Di Marco, (giudici a latere Alessandro Piscitelli e Manuela Gallo) ha però assolto 31 imputati con una sentenza di 130 pagine in cui oltre 10 collaboratori che hanno deposto in aula non sono stati affatto citati nelle motivazioni.

Le originarie richieste dell’accusa. I pm Giuseppe Borrelli e Simona Rossi avevano in primo grado chiesto dure condanne per un totale di 379 anni di carcere.

In particolare, a fronte di una richiesta di pena di 27 anni ciascuno chiesti dalla Dda per i boss Luigi e Giuseppe Mancuso di Limbadi, il Tribunale di Vibo ha dichiarato nei loro confronti “il non doversi procedere” in quanto ha ritenuto che i due imputati fossero stati già condannati per gli stessi reati dalla Corte d’Assise di Palmi nel processo “Tirreno”. Assolti in primo grado per “ne bis in idem” anche gli imputati: Michele Iannello (divenuto collaboratore di giustizia), Antonio Albanese, Vincenzo Barbusca, Antonio Fazzari, Alessandro Morfei, Fortunato Nardi, Francesco Nesci, Domenico Oppedisano, Giuseppe Oppedisano.

Assolti poi (con sentenza divenuta definitiva per mancanza di proposizione di appello da parte della Dda) i rimanenti imputati, ovvero: Antonio Colacchio, Andrea Currà, Roberto Cuturello, Salvatore Cuturello, Antonino De Vito, Francesco Elia, Gaetano Galati, Ottavio Galati, Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”, Salvatore Mancuso, Michele Silvano Mazzeo, Francesco Mesiano, Roberto Piccolo, Salvatore Pititto, Antonio Prenestì, Raffaele Reggio, Domenico Soriano, Francesco Soriano, Gaetano Soriano, Leone Soriano.

Associazione mafiosa, traffico di stupefacenti, usura, estorsioni, rapine, detenzione di armi i reati, a vario titolo, contestati.

Impegnati nel collegio di difesa gli avvocati: Antonio Porcelli, Francesco Stilo, Giuseppe Di Renzo, Francesco Sabatino, Piero Chiodo, Domenico Ceravolo, Giovanni Marafioti, Mario Bagnato, Francesco Schimio.

In foto dall’alto in basso: Giovanni Mancuso, Pantaleone Mancuso, Diego Mancuso, Francesco Mancuso, Nazzareno Prostamo

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