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‘Ndrangheta: gli equilibri mafiosi nel gruppo Bonavota nel racconto del pentito Mantella

La sentenza di condanna per l’omicidio di Domenico Di Leo continua a fornire diversi particolari sulle dinamiche criminali dei clan vibonesi

‘Ndrangheta: gli equilibri mafiosi nel gruppo Bonavota nel racconto del pentito Mantella

Continuano a fornire diversi particolari di non poco conto nell’ambito delle dinamiche mafiose del Vibonese le motivazioni della sentenza con la quale è stato condannato a 30 anni di reclusione Francesco Fortuna, il 37enne ritenuto uno degli esecutori materiali dell’omicidio di Bruno Di Leo, alias “Micu Catalanu”, ucciso il 12 luglio 2004 nel centro abitato di Sant’Onofrio in via Tre Croci, nei pressi dell’abitazione della vittima che stava rientrando dall’ospedale di Vibo Valentia a bordo di una mini car.

Per il gup distrettuale di Catanzaro Antonio Battaglia, che ha emesso la sentenza di condanna al termine del giudizio celebrato con rito abbreviato (che è valso per l’imputato uno sconto di pena pari ad un terzo), ci si trova dinanzi ad un fatto di sangue “attentamente pianificato e commesso con forme sfrontate e brutali, tipiche dell’agire della criminalità organizzata, intenzionata in tal modo a palesare il suo potere e la sua forza, non solo all’associazione avversa direttamente colpita, ma anche all’inerme collettività”. Un delitto mafioso, dunque, commesso dal clan Bonavota per punire uno dei membri storici del gruppo il quale si sarebbe messo di traverso negli affari della consorteria alla cui testa gli gli inquirenti collocano i fratelli Pasquale e Domenico Bonavota.

Le dichiarazioni di Mantella. Grande spazio nelle motivazioni della sentenza trovano le dichiarazioni sul delitto da parte di Andrea Mantella, lo scissionista del clan Lo Bianco di Vibo Valentia che, in un dato periodo storico, ha costituto anche il “braccio armato” dei Bonavota di Sant’Onofrio. Il gup per arrivare alla sentenza di condanna valorizza proprio le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Andrea Mantella il quale dopo aver parlato degli omicidi di “Belsito Domenico e Cracolici Raffaele”, ammette di aver commesso per il clan Bonavota anche “l’omicidio di Domenico Di Leo” insieme a Francesco Fortuna e Francesco Scrugli (a sua volta quest’ultimo ucciso nel marzo 2012 dal clan Patania di Stefanaconi). Un omicidio – quello di Domenico Di Leovoluto dai Bonavota “a tutti i costi – spiega Mantella – perché lui aveva mire espansionistiche, nonostante facesse parte dello stesso gruppo Bonavota. Nella prima fase in cui i Bonavota avevano avuto la guerra con i Petrolo – spiega il giudice in sentenza riportando le dichiarazioni di Mantella – Domenico Di Leo era un azionista dei Bonavota, insieme a Pasquale Bonavota, Rosario Cugliari, Bruno Cugliari e Calfapietra, la persona poi rimasta uccisa alle case popolari, quando rimasero feriti Rosario Cugliari e credo anche Pasquale Bonavota. Erano i tempi – riferisce Mantella – della guerra con i Petrolo-Bartolotta e Matina. Si tratta dei tempi della strage dell’Epifania, quando io non facevo parte di quell’ambiente”.

Continua ancora Mantella: “Dopo che gli fu fatto questo favore, fummo convocati io e Francesco Scrugli, che ha sempre fatto tutto con me, in campagna dai Bonavota. Erano presenti Domenico Bonavota, Nicola Bonavota, Domenico Cugliari, detto Micu i Mela”, il fratello Bruno Cugliari, Francesco Fortuna e Onofrio Barbieri. Pasquale Bonavota non era presente, ma andava sempre il fratello Nicola, credo a Roma, a riferirgli tutto quello che stava accadendo, anche perché il capo vero dei Bonavota – riferisce Mantella – ancora oggi è proprio Pasquale Bonavota insieme a Domenico Cugliari, Micu i Mela. Le decisioni venivano prese sempre da Pasquale Bonavota che le condivideva con lo zio Domenico Cugliari, mentre Domenico Bonavota era il braccio armato, quello che più di tutti voleva gli omicidi. Era un momento – conclude Mantella – in cui i Bonavota stavano perdendo potere. Ancora oggi, per quello che mi risulta, la situazione all’interno del gruppo Bonavota è questa. In quella circostanza in campagna mi dissero che avevano dei problemi per commettere gli omicidi per evitare di essere coinvolti direttamente e avevano bisogno di crearsi un alibi con spostamenti e altro mentre venivano commessi gli agguati”. 

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