domenica,Novembre 24 2024

Ventiquattr’ore al Pronto soccorso di Vibo, cronaca di un’esperienza ai limiti del …paranormale

Entrare alle 16 di un qualsiasi venerdì e vedersi trasferiti in reparto alla stessa ora del giorno successivo. Succede nel nosocomio cittadino tra medici eroi, pazienti sfiniti e familiari esagitati. Ecco il racconto di una vicenda di “ordinaria” sanità vibonese

Ventiquattr’ore al Pronto soccorso di Vibo, cronaca di un’esperienza ai limiti del …paranormale

Sono le 16 di un mite venerdì di gennaio. Al pronto soccorso dello “Jazzolino” di Vibo Valentia c’è una calma apparente. Pochi pazienti, accomodati in un angusto e stretto corridoio. Nella prima stanza una signora polacca, molto sofferente, seduta su una sedie a rotelle e un extracomunitario che sbraita contro l’infermiera di turno che, davanti ad un computer, registra le tessere sanitarie dei malmessi. 

«Alle 5 e mezza io andare a lavoro» si lamenta l’uomo, mentre il paramedico lo invita a calmarsi. «Io essere qui dalle nove di mattina» continua agitato. Sta aspettando ormai impaziente il referto, che riesce ad ottenere, sgattaiolando nel reparto proibito, esattamente alle cinque e venti. Con l’aria di chi sembra avere combinato una marachella, varca soddisfatto la soglia d’uscita, felice di arrivare, forse, puntuale a lavoro. 

Dalla porta a fianco, accompagnato da due guardie carcerarie entra, timido e un po’ spaesato, un detenuto con un dito della mano sinistra fasciato sotto lo sguardo incredulo dei presenti per via delle manette che lo legano al polso di uno dei due poliziotti. Sembra una scena tratta dal  film “Le ali della Libertà”. Ma questa non è finzione, è la dura realtà. Attende il suo turno in mezzo ad anziani sofferenti, a bambini lagnanti, a madri sfinite. Turno che, non so se è il caso di dire “beato lui”, ha la durata di soli cinque minuti. Viene subito accompagnato al reparto di ortopedia. Non lo rivediamo più. 

L’attesa è lunga, nel frattempo l’infermiera, abbandonata la postazione del computer e, abbandonati anche gli abiti d’infermiera per vestire quelli di wonder woman, con lo stetoscopio, controlla le spalle ad un nonnino. Dopo “appena” quattro ore di attesa, entriamo nell’area codice giallo, che è attigua all’area  codice bianco, codice verde e codice rosso pure. C’è un via vai di gente che sembra corso Vittorio Emanuele III giorno di Pasqua, sono le otto e mezza di sera, manca solo il vigile urbano a dirigere il traffico. 

A dare retta ai pazienti e ai loro familiari in preda all’ira, un medico dalla faccia stravolta che corre da una stanza all’altra per calmare i dolori e anche gli animi, e una dottoressa esausta che fa su e giù per i reparti del nosocomio. Il personale infermieristico si conta sulle dita di una mano, esattamente due, che spingendo gli ignari malati sulle carrozzelle, corrono verso la sala raggi facendo a gara a chi arriva per primo, ovviamente non per gioco ma per fare in fretta e ritornare, nell’immediatezza, alla postazione di partenza per far salire sul “bolide” a due ruote altri pazienti. Noi ci accomodiamo in una stanza due metri per due, dove in perfetta fila, sono piazzate cinque barelle con su quattro malati non gravi. Nella lettiga vuota fanno accomodare l’anziana donna che accompagno con la speranza di saperla trasferita, a stretto giro, nel reparto idoneo alle sue patologie: scompenso cardiaco cronico, flebite, versamento pleurico, insufficienza grave venosa, respiro ridotto. 

Nel frattempo si sono fatte le 23 e, dopo aver aspettato invano il trasferimento – «non ci sono posti liberi» ci riferiscono – rimaniamo nella saletta due per due, io in piedi e lei, poverina, sdraiata per metà sulla barella con l’ossigeno attaccato alle narici. Le ore, fortunatamente volano, forse per il via vai incessante. C’è chi si lamenta, chi sbraita, qualcun altro invece manda maledizioni. Sono già le quattro del mattino, sono passate esattamente dodici ore dal nostro arrivo e ad occuparsi ancora una volta dei pazienti stanchi e dei loro scorbutici  familiari, gli stessi dottori del precedente turno pomeridiano. Non credo ai miei occhi. O sono due dei “Fantastici Quattro” oppure sono alieni. 

Riescono a mantenere la calma mentre, alle cinque del mattino l’intero pronto soccorso sembra un ring di boxe. Urla, imprecazioni, male parole contro le due anime pie che non sanno più chi sanare per primo. Sono le nove del mattino, la notte è passata e noi per fortuna siamo uscite indenni. A visitare i pazienti impazienti, con il cambio turno, sono altri due medici, un uomo e una donna giovanissima e, per fortuna, gli infermieri che misurano la pressione e la temperatura, non sono più due, ma tre. Noi aspettiamo ancora. Ci dicono che, “forse”, dopo le due del pomeriggio, dovrebbe liberarsi un posto in barella, sì avete letto bene, in barella, nel reparto adatto. Ci rincuoriamo, una speranza ancora c’è. Intanto il medico uomo con pazienza e professionalità visita i pazienti a cottimo, sono tanti, troppi. Chi vuole essere dimesso subito, chi vuole il ricovero, chi grida “aiutatemi”, chi canta Prévert, chi copia Baglioni… ops, scusate! questo era Rino Gaetano. Tutti pretendono, nessuno rispetta il ruolo dei professionisti che ha davanti. Nel frattempo si sono fatte le quattro del pomeriggio e noi siamo ancora in attesa di trasferimento al reparto. 

Sono passate ventiquattr’ore. La pazienza comincia ad andare a farsi benedire ma poi penso allo sforzo sovrumano del personale medico e paramedico e inizio a contare fino a dieci prima di proferire parola. Alle cinque del pomeriggio, finalmente, il medico di turno ci consegna un foglio: la paziente e i familiari accettano il ricovero in posto barellato al reparto xxx. Ci sembra la fine di un incubo.

A Vibo Valentia da anni sentiamo parlare del nuovo ospedale che dovrà nascere, nientepopodimenochè, sopra un metanodotto. La prima pietra è stata messa nel lontano 2004, con gli anni le prime pietre sono aumentate fino a diventare piene di “lippo”. In compenso sono diminuiti gli operatori sanitari a discapito dei circa 163mila abitanti dell’intera provincia che anziché prendersela con una classe dirigente incapace e inconcludente, inveiscono contro chi lotta in prima linea per garantire la loro salute e a cui va la mia stima e solidarietà.

Tutto bene quel che finisce bene. Ah, dimenticavo! La nonnina adesso si trova in camera in compagnia di due arzille e acciaccate vecchiette. 

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