L’ INCHIESTA | Il traffico dei reperti archeologici: dal Vibonese sino agli Stati Uniti
Le operazioni, i retroscena ed il business messo in piedi da “tombaroli” ed organizzazioni criminali che hanno da tempo fiutato un affare che vale più della cocaina
Un grande mercato internazionale, molti vantaggi e poche regole. Il Vibonese è da tempo al centro di traffici di reperti archeologici che abbracciano mezza Europa e si propagano sin negli Stati Uniti. Un sottobosco di “professionisti”, legati a un circuito di distribuzione su scala internazionale, che ha trovato a Vibo una “miniera d’oro”, sia per il suo vasto patrimonio archeologico, sia per la relativa facilità di “prelievo” in molti siti, purtroppo, incustoditi. Un business, quello della c.d. “archeo-mafia”, su cui gli inquirenti vibonesi hanno accesso i riflettori nell’ultimo decennio, arrivando nel 1999 a denunciare 13 persone ed a sequestrare oltre 130 reperti, molti dei quali di eccezionale rarità. [Continua dopo la pubblicità]
Come quelli scoperti dalla Guardia di finanza il 21 aprile 1999 nelle abitazioni di due pensionati vibonesi che, accanto a due fucili calibro 12 detenuti illegalmente, avevano allestito un vero e proprio “museo” privato con una cinquantina di reperti fra colonne in pietra, statuine di età greco-romana, busti di Zeus e maschere di Silene. E fine ingloriosa sarebbe toccata anche a tre maestose colonne doriche, trafugate da siti archeologici della provincia, se la polizia tributaria non le avesse scovate il 19 ottobre 1999 nel giardino di un’abitazione privata di Vibo dove erano state collocate accanto a palme e gerani. Risale invece al 19 ottobre del 2000 la scoperta, nell’ambito dell’operazione “Magna Graecia”, di 9 reperti di notevole interesse archeologico (anfore romane e statuine), risalenti al I secolo a.c., recuperati dalla Gdf in tre abitazioni private di Pizzo. Le anfore, con ancora impresso il timbro a secco indicante periodo e luogo di fabbricazione, dopo un’accurata ripulitura sono state collocate nel Museo di Vibo. Dal mare alla montagna, perché il 10 settembre 2003 i carabinieri del Nucleo tutela del patrimonio culturale di Cosenza e quelli di Serra San Bruno scovano sotto la sabbia, utilizzata per impastare il cemento di un edificio in costruzione, una struttura artigianale di forma rotonda con canaletto di scolo, rara lavorazione di archeologia industriale, di tipica cultura Serrese, risalente al V secolo d.C.
Ma che dietro il traffico dei reperti archeologici si nasconda spesso la criminalità organizzata, con quella vibonese in prima fila, gli inquirenti ne hanno definitivamente conferma attraverso le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia di Castrovillari: Antonio Di Dieco, Alfonso Scaglione e Gaetano Greco, che hanno svelato alla Dda di Catanzaro gli interessi dei clan nel lucroso affare. Clan come i Mancuso di Limbadi che, intercettati nell’inchiesta “Dinasty”, si preoccupavano nel 2003 di trattare con emissari di una casa reale europea la cessione di alcune statue in loro possesso “che costano miliardi”.
Quindi, a segnare una svolta nel contrasto al traffico di reperti archeologici, intervengono l’inchiesta “Pandora”, avviata nel 2002 dalla Procura di Foggia e che ha interessato anche il vibonese, e quella che il 6 dicembre del 2000 ha consentito ai carabinieri di Vibo di scoprire un cunicolo sotterraneo, con tanto di binari sui quali scorreva un carrello, scavato dai tombaroli in via Scrimbia, una delle zone più ricche di reperti dell’intera Calabria e dove è stata localizzata pure una stipe votiva di un santuario greco dell’antica Hipponion dedicato a Persefone. Ed ancora: inchieste denominate “Hipponion” e “Persefone”, del 22 e 30 agosto 2001, hanno consentito il recupero di oltre duemila pezzi del “tesoro di Scrimbia”, mentre nel maggio del 2009 stati apposti i sigilli ( per assenza di documenti autorizzativi) all’ex museo di Nicotera, col recupero si oltre 7.000 reperti trafugati dalle aree archeologiche di Tropea, Cessaniti, Briatico, Ionadi e Capo Vaticano.
Ma la sorpresa maggiore per gli inquirenti rimane, senza dubbio, quella avvenuta nel 1995 durante le perquisizioni domiciliari seguite agli arresti dell’operazione antimafia “Tornio”. Gli uomini della Dia, infatti, anziché mettere le mani su qualche panetto di cocaina, trovarono in casa degli arrestati numerosi e rari reperti archeologici, opportunamente occultati.
I boss, del resto, l’avevano capito da tempo: i beni archeologici, se immessi nei “giusti” circuiti illegali, valgono molto più della cocaina.
Ad ulteriore conferma di ciò, l’inchiesta “Purgatorio 3” scattata nel 2014 ben “fotografa” tale realtà. I carabinieri del Ros di Catanzaro sono infatti riusciti a far luce su una presunta associazione a delinquere finalizzata al traffico di reperti archeologici con al vertice il boss Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”, deceduto nell’ottobre del 2015 in carcere. Gli scavi abusivi sono stati fatti in questo caso in via Alcide De Gasperi, nel cuore di Vibo Valentia ed a pochi metri dal duomo di San Leoluca. Una vera “miniera d’oro” per il gruppo guidato da Mancuso, con i reperti immessi anche nel mercato svizzero. A febbraio del prossimo anno è fissata l’udienza preliminare a carico di 11 indagati.