‘Ndrangheta: “Impeto”, assolte tre figure apicali della famiglia Mancuso
La Corte d’Appello conferma la sentenza del Tribunale di Vibo del 24 dicembre 2015 per un procedimento nato nel 1999 e rimasto a “dormire” nove anni negli uffici della Dda
Assolti per non aver commesso il fatto. La Corte d’Appello di Catanzaro ha confermato il verdetto di primo grado emesso il 24 dicembre 2015 dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Lucia Monaco, al termine del processo nato dall’operazione antimafia denominata “Impeto”. Le assoluzioni interessano tre esponenti di peso all’interno della “famiglia” Mancuso: Diego Mancuso, 64 anni, di Limbadi; Pantaleone Mancuso, 56 anni, detto “l’Ingegnere”, di Nicotera; Giovanni Mancuso, 76 anni, di Limbadi, zio dei primi due.
Le richieste di pena. Nei confronti di Pantaleone Mancuso, alias “l’Ingegnere”, la Procura generale di Catanzaro aveva chiesto una condanna a 16 anni di reclusione (il secondo in foto); per Diego Mancuso (in foto in basso) la richiesta ammontava invece a 14 anni di carcere, mentre per Giovanni Mancuso (il primo in foto) la richiesta di pena era stata di 12 anni di reclusione. Stesse richieste di condanna erano state formulate in primo grado dal pm della Dda di Catanzaro, Camillo Falvo che aveva poi appellato le assoluzioni.
Le accuse e l’inchiesta rimasta a “dormire” 9 anni. Due sequestri di persona, usura per milioni di vecchie lire, estorsioni, violenza privata, danneggiamenti e spari in luogo pubblico i reati, aggravati dalle modalità mafiose, a vario titolo contestati agli imputati.
Fra le presunte vittime dei Mancuso, il commerciante di Nicotera, Alfonso Carano, per il quale il Tribunale collegiale di Vibo aveva disposto la trasmissione degli atti all’ufficio di Procura (unitamente alla deposizione del teste Fossari) per procedere per il reato di falsa testimonianza. Il commerciante, secondo l’accusa, sarebbe stato sottoposto ad usura, sequestrato, malmenato e poi costretto a scavarsi una fossa in campagna sotto la minaccia delle armi e di un cappio infilato intorno al collo.
Gli episodi delittuosi oggetto delle contestazioni partono dal 1993 ed arrivano sino al 1999. Fra le vittime degli interessi dei Mancuso, oltre ad Alfonso Oreste Carano, veniva indicato pure l’imprenditore agricolo Domenico Crea (deceduto nel 2008). L’inchiesta è rimasta a “dormire” nove anni alla Procura distrettuale di Catanzaro. L’operazione “Impeto”, condotta su indagini dei carabinieri del Ros di Catanzaro e dei militari dell’Arma di Tropea, era scattata il 20 luglio 1999 con il coordinamento dell’allora pm della Dda di Catanzaro, Luciano D’Agostino. Dopo le scarcerazioni degli arrestati ad opera del Riesame, il fascicolo d’indagine era stato “riesumato” solo 9 anni dopo – nel 2008 – dall’allora pm distrettuale Marisa Manzini che aveva provveduto a firmare l’avviso di conclusione indagini e ad avanzare poi le richieste di rinvio a giudizio. Il processo per tutti gli imputati era stato ottenuto il 12 luglio 2010 dall’allora pm della Dda di Catanzaro, Giampaolo Boninsegna.
Il collegio di difesa. Diego Mancuso era difeso dagli avvocati Francesco Sabatino e Francesco Schimio; Giovanni Mancuso era assistito dagli avvocati Giuseppe Di Renzo e Francesco Stilo; Pantaleone Mancuso dagli avvocati Francesco Sabatino e Mario Bagnato.
Le assoluzioni non appellate dal pm e divenute definitive. In primo grado erano inoltre imputati: Francesco Mancuso, detto “Tabacco”, per il quale il pm Falvo aveva chiesto 9 anni di carcere; Domenico Mancuso, figlio del boss Giuseppe Mancuso, per il quale erano stati chiesti 8 anni; Salvatore Cuturello, genero di Giuseppe Mancuso, per il quale erano stati chiesti 8 anni; Salvatore Valenzise, parente del boss detenuto Giuseppe Mancuso, nei confronti del quale il pm aveva chiesto 11 anni; Vincenzo Addesi di Soriano Calabro, nei cui confronti erano stati chiesti 9 anni di carcere. In totale, il pm della Dda di Catanzaro Camillo Falvo, al termine della requisitoria, aveva chiesto 87 anni di reclusione. Le assoluzioni di Francesco Mancuso, Domenico Mancuso, Salvatore Cuturello, Salvatore Valenzise e Vincenzo Addessi non sono state appellate dal pubblico ministero e quindi sono divenute definitive già dopo la sentenza di primo grado.