‘Ndrangheta, il locale di Vibo e le tre ‘ndrine che si dividono la città
Dagli anni ’60 ad oggi: l’evoluzione del clan, i capi e i sodali, le aree di influenza, gli affari e i ruoli tratteggiati nella maxi-inchiesta “Rinascita-Scott”
Ha cambiato diversi volti e diversi capi, nel corso dei decenni, la ‘ndrangheta nella città di Vibo Valentia. Dagli anni ’60 con i Pardea detti “Ranisi” fino al vuoto di potere degli anni ’80 causato da morti e inchieste giudiziarie, passando per l’interregno di Francesco Fortuna alias “Ciccio Pomodoro”, fino alla presa del potere, da quel momento, fine ’80 inizio anni ’90, dei Lo Bianco, sotto l’egida del clan Mancuso di Limbadi e dei Fiarè-Razionale di San Gregorio. Arrivando ad oggi, dove la città era tenuta sotto scacco da un locale di ‘ndrangheta composto sostanzialmente da tre diverse ‘ndrine che – emerge dalla mega operazione “Rinascita-Scott” – si dividevano il territorio in base alle aree di influenza. [Continua dopo la pubblicità]
A dare origine alla conformazione odierna, varie vicissitudini. La morte degli storici boss: Carmelo Lo Bianco, alias Piccinni, deceduto in carcere a Parma nel 2014; e del cugino omonimo, detto Sicarro, morto due anni dopo. Ma soprattutto l’insofferenza, latente già da diversi anni prima, esplosa nel cuore degli anni 2000 quando Andrea Mantella decise di dire basta alla riverenza verso i Mancuso mettendo sù un gruppo autonomo, cristallizzato anche nell’operazione “The goodfellas” del 2010.
Secondo la Dda di Catanzaro ed i carabinieri di Vibo Valentia, che hanno ricostruito ogni singolo tassello di un mosaico decisamente complesso, il capoluogo se lo dividono dunque tre ‘ndrine. La prima, che è anche la società maggiore, continua a fare capo ai Lo Bianco-Barba con competenza nel centro storico e nelle aree limitrofe. Al vertice vi sarebbero Paolino Lo Bianco, Enzo Barba “Il musichiere”, Filippo Catania, Antonio Lo Bianco e lo scomparso Raffaele Franzè “U svizzeru”. Barba e Franzè «svolgevano, anche alternativamente, il ruolo di contabili della cosca». Sotto di loro, il resto dei presunti affiliati: Bruno, Francesco e Raffaele Barba; Francesco Bognanni, Paolo Carchedi, Fortunato Ceraso; e ancora Carmelo e Giuseppe D’Andrea; Nazzareno Franzè, Domenico Franzone, Sergio Gentile; e poi Lo Bianco Antonino, Carmelo (cl. ’72), Carmelo (cl. ’92), Leoluca, Michele (cl. ’48), Nicola, Salvatore; Vincenzo Lo Gatto, Francesco Michele Patania (alias “Ciccio bello”), Enzo Puntoriero, Domenico Prestia, Domenico Rubino, Filippo Susanna e Salvatore Tulosai. Tutti costoro operavano a vario titolo «nelle attività estorsive ed usurarie nonché in tutte le attività illecite relative al controllo del territorio, sotto il coordinamento dei vertici». Inoltre, «pienamente inseriti nelle dinamiche associative, avendo ottenuto nel tempo doti e cariche ‘ndranghetistiche», partecipavano alle riunioni su organizzazione degli assetti interni.
Sergio Gentile (detto “Tobba”), «già appartenente di un gruppo familiare a sé stante, precedentemente al servizio di altre componenti della consorteria (ad esempio Mancuso) veniva assorbito nella ‘ndrina Lo Bianco-Barba e si occupava di attività estorsive»; Enzo Puntoriero, già inserito nella cosca Bellocco di Rosarno, in stretto contatto con Paolino Lo Bianco (figlio del defunto boss Carmelo Lo Bianco detto “Piccinni”) «si occupava nello specifico di reati di esercizio abusivo del credito, usura ed estorsione». Giuseppe D’Andrea «agiva di recente quale “malandrino libero” rispettato dalla consorteria, che gli riconosceva l’esercizio del potere ‘ndranghetistico su specifici settori ed attività commerciali». Giovanni Claudio D’Andrea, figlio di Carmelo D’Andrea, detto “Coscia Agnejiu”, «è componente del gruppo capeggiato dal padre, risultato in concorrenza e contrapposizione con la ‘ndrina dei “Ranisi”». Pasquale D’Andrea, Gaetano e Francesco Cannatà, in stretti rapporti con Giovanni D’Andrea, si sarebbero dedicati in particolare «all’esercizio abusivo del credito e all’usura», alla stregua del tabaccaio Domenico Bruno Moscato, che operava «per conto di Vincenzo Barba e Rosario Pugliese».
La seconda ‘ndrina torna a prendere lo storico nome dei “Ranisi”, riferibile alla famiglia Pardea. Il capo indiscusso della ‘ndrina, nonché esponente apicale del locale di Vibo Valentia, sarebbe Domenico Camillò, 78 anni, alla testa della cosca in cui è confluito anche quello che era il gruppo di Andrea Mantella, e che oggi opera tra il Cancello Rosso e San Leoluca. Insieme a Camillò, col ruolo di «promotore ed organizzatore» dei “Ranisi” vi è anche Antonio Macrì; mentre Domenico “Mommo” Macrì viene collocato dagli inquirenti come «elemento di vertice dell’ala militare, con il compito di individuare i bersagli delle attività estorsive e delle azioni ritorsive volte al controllo del territorio, di gestire e pianificare gli agguati, indicando altresì gli obiettivi da colpire»; al fianco di Macrì vi sono Francesco Antonio Pardea, che decideva «sulla ripartizione dei proventi di reato ponendosi quale riferimento generalmente riconosciuto da tutti gli affiliati»; e Salvatore Morelli, che esercitava «azione di coordinamento dei sodali, collaborando con Macrì e Pardea nella gestione del sodalizio e condividendo, con gli stessi, le decisioni più importanti, partecipando anche direttamente alle attività estorsive». Giuseppe Camillò pensava anche all’approvvigionamento «d’armi da fuoco e di materiale logistico da utilizzare nella perpetrazione degli eventi delittuosi compiuti per conto della consorteria, riconosciuto quale rappresentante del sodalizio e principale interlocutore dei componenti di altre articolazioni della consorteria». Insieme a Macrì, Pardea e Morelli si affiancava l’attuale collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena, che partecipava anche «alle decisioni relative alla concessione di doti e cariche ed ai relativi rituali, deputato a prendere parte agli incontri di pianificazione delle attività criminali della cosca». Domenico Pardea, 51 anni, invece, era il referente su Pizzo della ‘ndrina vibonese, ricoprendo sempre il ruolo di «promotore e organizzatore», tenendo i rapporti con gli Anello di Filadelfia. A Pizzo, Mimmo Pardea si sarebbe diviso il territorio con Salvatore Mazzotta, 29 anni, quest’ultimo legato al locale di Piscopio e ai Bonavota di Sant’Onofrio. Gli altri partecipi della ‘ndrina dei Pardea-Ranisi e del gruppo di Salvatore Morelli sono stati individuati in Michele e Domenico Camillò (cl. ’91); Carmelo Chiarella, Filippo Di Miceli, Luigi Federici, Marco Ferraro, Salvatore Furlano, Daniele Lagrotteria, Michele Lo Bianco (cl. ’75), Luciano Macrì, Michele Pio Maximiliano Macrì, Michele Manco, Vincenzo e Salvatore Mantella, Michele Pugliese Carchedi, Marco Startari, Giuseppe Suriano, Domenico e Giuseppe Tomaino. Tutti sarebbero «alle dirette dipendenze» di Salvatore Morelli, Mommo Macrì e Francesco Antonio Pardea, «adoperandosi nell’esecuzione d’azioni delittuose, in primis agguati e attività estorsive o ritorsive, ed avendo nella loro disponibilità armi e munizioni, partecipando alle riunioni del sodalizio, veicolando i messaggi tra sodali ed esercitando il controllo del territorio, fornendo apporto materiale e logistico per i fini della consorteria». Salvatore Furlano, in particolare, si sarebbe occupato «dell’usura per conto di Domenico Lo Bianco». Mentre Michele Dominello, Vincenzo Tassone, Salvatore Morgese e Vincenzo Pugliese Carchedi avrebbero custodito «armi e mezzi logistici da utilizzare per la perpetrazione delle azioni delittuose». Diversa la posizione di Mario De Rito: storicamente legato ai Mancuso, in particolare a Giovanni Mancuso, era stato “reclutato” negli anni da Andrea Mantella e per conto della ‘ndrina si sarebbe occupato di recupero crediti «con modalità mafiose» riscuotendo estorsioni nella zona di Vena di Ionadi.
La terza ‘ndrina che completa il locale di Vibo Valentia è quella dei “Cassarola”, con competenza sulla zona del viale Affaccio e aree limitrofe. Al vertice vi sarebbe Rosario “Saro” Pugliese, 53 anni, «capo e direttore del sodalizio, con compiti decisionali e rappresentativi per l’intera ‘ndrina, impartendo le disposizioni ai vari sodali, coordinandone le attività, occupandosi anche direttamente delle attività estorsive e di controllo del territorio». A fargli da spalla, il figlio Francesco detto “Willy”. Tra gli organizzatori anche Orazio Lo Bianco, 45 anni (fratello del consigliere comunale Alfredo Lo Bianco), che si occupava «dell’ala imprenditoriale ed economica della consorteria, anche rendendosi disponibile a farsi intestare fittiziamente attività imprenditoriali – soprattutto nel settore delle pompe funebri – di fatto riconducibili a Pugliese Rosario e collaborando nella gestione delle stesse, in tale contesto anche intrattenendo rapporti con esponenti dell’amministrazione comunale di Vibo Valentia e con altri imprenditori del settore». Orazio Lo Bianco si sarebbe anche occupato di orientare «il pacchetto di voti “a disposizione” della famiglia in favore dei politici vicini al sodalizio». Giuseppe “Pino” Pugliese, invece, doveva controllare il territorio «ed in particolare avvistare e comunicare i movimenti delle forze dell’ordine; e mentre Carmela Lo Bianco, detta Melina, sorella di Orazio, «custodiva la cassa comune del sodalizio», c’era Loris Palmisano a «coordinare i sodali più giovani, fornendo l’indirizzo e le disposizioni»; questi era inoltre «componente dell’ala militare nonché promotore di una piazza di spaccio». Michele Lo Bianco (cl. ’99) «coadiuvava i sodali Orazio Lo Bianco e Rosario Pugliese nella gestione del settore delle pompe funebri, fornendo il suo contributo per ottenere, in maniera truffaldina, il pagamento di commesse da parte del Comune di Vibo Valentia». Mentre Francesco Paternò collaborava con quest’ultimo «in particolare alla consumazione dei reati di truffa e turbativa d’asta» e «si occupava altresì della consumazione di reati in materia di armi, di estorsioni, di ricettazione e riciclaggio di veicoli per conto del gruppo».
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