Processo “Purgatorio”: la deposizione dell’ex vice capo della Mobile di Vibo Emanuele Rodonò
Quasi quattro ore dinanzi al Tribunale collegiale per il poliziotto imputato di concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazione di segreti d’ufficio
Quasi quattro ore di deposizione oggi dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Alberto Filardo, a latere i giudici Graziamaria Monaco e Raffaella Sorrentino, per l’ex vicecapo della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Emanuele Rodonò (in foto), accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazione di segreti d’ufficio. Rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, il poliziotto, originario di Catania ed in servizio per due anni nella sua città e poi a Palermo e Ragusa, ha ripercorso la sua carriera spiegando di essere arrivato a Vibo Valentia nel 2008 dopo essere stato contattato dal questore Filippo Nicastro. “Vibo non era fra le sedi più ambite – ha spiegato Rodonò – ma mi gratificò il fatto che un dirigente con una carriera come quella di Nicastro si fosse ricordato di me. Lo stesso Nicastro mi disse che a Vibo mancava il vice della Squadra Mobile, ma voleva una risposta subito. Presi così servizio a Vibo il 25 marzo 2008. Quando arrivai trovai un clima di latente difficoltà nei rapporti fra la Procura ordinaria, all’epoca guidata da Alfredo Laudonio e la Dda di Catanzaro. Ho avvertito inoltre la sensazione di un’atmosfera di sfiducia verso la Squadra Mobile di Vibo dopo la partenza del precedente dirigente Rodolfo Ruperti che aveva svolto delle attività investigative di pregio. Ho conosciuto il dottore Ruperti con il quale ho avuto un rapporto cordiale – ha spiegato Rodonò – anche perché lui, pur essendo in servizio a Caserta, aveva la famiglia a Vibo. Con il capo della Squadra Mobile di Vibo Valentia, Maurizio Lento, abbiamo riattivato una serie di attività investigative, consapevoli che i risultati anche per noi sarebbero presto arrivati”.
La conoscenza con l’avvocato Galati. Emanuele Rodonò ha spiegato di aver visto per la prima volta l’avvocato Galati dopo un danneggiamento agli arredi esterni del locale Filippo’s su corso Umberto a Vibo. “Mi è stato presentato dal dottore Lento – ha ricordato – ed il rapporto di frequentazione è nato a seguito di alcuni pranzi nel locale Filippo’s. Non ero inizialmente a conoscenza di indagini sull’avvocato Galati fatte dal mio predecessore Rodolfo Ruperti, ho appreso della cosa successivamente da Lento e dal commissario Pronestì. Per me il fatto che l’avvocato Galati fosse imputato per la vicenda delle indagini svolte da Ruperti non costituì un freno alla sua frequentazione”. Su domanda del pm Frustaci, Rodonò ha quindi aggiunto di “non ricordare di aver frequentato nello stesso periodo altri imputati, credendo che la vicenda di Galati si fosse già risolta in primo grado”. Primo grado all’epoca già celebrato con l’assoluzione dell’avvocato a Salerno nel processo “Do ut Des”, che ha interessato il giudice Patrizia Pasquin (che è stata invece condannata). Assoluzione dell’avvocato Galati poi confermata dalla Corte d’Appello di Salerno con richiesta di assoluzione formulata dallo stesso procuratore generale.
“Non sapevo che Galati difendesse i Mancuso – ha dichiarato Rodonò -, l’ho appreso solo successivamente, vedendo fra l’altro l’avvocato frequentare le aule giudiziarie. C’era stato qualche momento di frizione fra il nostro ufficio e l’avvocato Galati per un errore superficiale su una segnalazione che riguardava uno dei Mancuso. Il dottore Lento rimase contrariato dall’atteggiamento dell’avvocato Galati. Il mio rapporto con l’avvocato divenne con il tempo di amicizia, nutrendo affetto nei suoi confronti, ma non gli ho mai manifestato il timore di poter essere intercettato”. E proprio sul rapporto di amicizia con l’avvocato Galati, non interrotto da Rodonò neanche dopo aver appreso dell’esistenza delle intercettazioni in cui il legale nel casolare di Pantaleone Mancuso, alias “Vetrinetta”, dichiarava che “tanto la Squadra Mobile di Vibo di Lento e Rodonò indagini non ne fa”, ha “battuto” ripetutamente il pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci.
“Se lei afferma di non sapere se l’avvocato Galati millantava quando diceva queste cose nel casolare, dopo aver invece sentito questa conversazione in cui, fra l’altro, Mancuso afferma che voi dirigenti della Squadra Mobile di Vibo potevate passare da casa sua a prendervi il caffè, perché lei continua ancora oggi a mantenere rapporti di amicizia con l’avvocato? Perché non è risentito per vie delle conversazioni in cui l’avvocato Galati parla in tali termini con un boss mafioso sia di lei che del dottore Lento? Non crede – ha chiesto il pm Frustaci – che così dicendo, cioè che lei ed il dottore Lento tanto indagini non ne facevate, l’avvocato Galati abbia infangato la sua figura di poliziotto?” Risposta di Rodonò: “Mi rendo conto della sua osservazione, dottoressa, ma sono valutazioni del tutto personali le mie sul mantenimento del rapporto che ho con l’avvocato Galati e non credo mie valutazioni personali possano interessare questa sede. Galati ha spiegato il senso di queste sue conversazioni, non posso farlo io. Posso solo dire che mai il dottore Lento mi ha manifestato alcuna necessità di andare a casa di Mancuso per prendere un caffè”. Il pm ha quindi chiesto a Rodonò come mai da poliziotto non abbia pensato di fare una relazione di servizio anche dinanzi all’esistenza di possibili notizie di reato e di nuovi particolari appresi dall’avvocato Galati nel corso di una conversazione in cui il legale svelava alcune possibili causali sugli omicidi dei narcotrafficanti Vincenzo Barbieri e Domenico Campisi.
Emanuele Rodonò sul punto ha spiegato che nel corso di tale conversazione era presente in auto pure il pm della Dda di Catanzaro, Paolo Petrolo, “il quale non mi ha detto di fare alcuna relazione – ha spiegato Rodonò – e per me le notizie fornite dall’avvocato Galati erano già entrate nel patrimonio conoscitivo della Dda, vista la presenza del pm Petrolo durante le conversazioni, e per questo non ho pensato di fare alcuna relazione su tale rivelazione”.
Anche in ordine alla vicenda che ha portato la notte del 29 giugno del 2011 la Mobile di Bologna e Vibo ad arrestare nel Bolognese per la detenzione di un kalashinikov tre elementi ritenuti appartenenti, o comunque vicini, al clan dei Piscopisani (fra cui Sasha Fortuna di Vibo, fratello di Davide ucciso in spiaggia Vibo Marina nel luglio del 2012 dai Patania di Stefanaconi) le risposte di Emanuele Rodonò hanno registrato diverse contestazioni e ulteriori domande da parte del pm, Annamaria Frustaci, soprattutto in ordine alla conoscenza degli arresti da parte dell’avvocato Galati.
Le frasi delle intercettazioni. Emanuele Rodonò ha poi dato la sua spiegazione anche in ordine al significato di alcune frasi dallo stesso pronunciate e poste alla base dell’impalcatura accusatoria. Sulla frase della conversazione del 16 ottobre 2011 in cui l’ex capo della Squadra Mobile afferma di non aver potuto indagare sui Mancuso per via di “un obbligo di fedeltà al quale ha assolto per motivi gerarchici e di amicizia”, Emanuele Rodonò ha spiegato che intendeva affermare che in quel periodo era già in via di trasferimento ad altra sede e per questo ormai impossibilitato per motivi di tempo ad indagare sui Mancuso (tanto da essere assegnato all’ufficio immigrazione), essendosi in passato sempre attenuto per “motivi gerarchici” alle decisioni dell’allora pm della Dda di Catanzaro, Giampaolo Boninsegna, che aveva deciso di “preferire i carabinieri – ha affermato Rodonò – per alcune inchieste. Decisione che io da poliziotto, subordinato gerarchicamente al pubblico ministero che coordina la polizia giudiziaria – ha continuato Emanuele Rodonò – non potevo di certo sindacare. Quando parlo di gerarchia mi riferivo al pubblico ministero, non al dottore Lento e neppure al questore. In ogni caso volevo dire con tale frase di essere arrivato a Vibo e di aver lavorato sia con la Procura ordinaria diretta dal procuratore Mario Spagnuolo, sia con la dottoressa Manzini ed alla data del 16 ottobre 2011 di aver comunque assolto al mio lavoro di vicecapo della Squadra Mobile pur essendo stato assegnato alla sezione narcotici e non alla sezione criminalità organizzata, circostanza questa che mi aveva impedito di indagare sui Mancuso”.
Infine altre due vicende al centro delle “contestazioni”. Con la frase pronunciata da Rodonò nelle intercettazioni nella quale afferma di essere arrivato dalla Sicilia a Vibo, “altrimenti quella occupava”, il poliziotto ha chiarito di non aver mai detto la parola “quella” al femminile, ma “quello” al maschile con riferimento al dottore Lento già nominato capo della Mobile di Vibo, e di non aver detto nelle intercettazioni “occupava”, ma “s’accuppava”. “Altrimenti quello s’accuppava” sarebbe quindi la frase esatta pronunciata da Emanuele Rodonò, il quale ha affermato che si trattava di un’espressione tipica siciliana per significare che altrimenti il dottore Lento si sarebbe “accuppato” di lavoro, cioè sarebbe stato sommerso di lavoro e da solo non avrebbe potuto farcela. In ordine, invece, alla giornata passata con l’avvocato Galati al mare al villaggio “Costa degli dei” di proprietà anche del genero del boss Pantaleone Mancuso, “Vetrinetta”, Antonio Maccarone, Emanuele Rodonò ha fornito la seguente spiegazione: “L’avvocato Galati mi disse che il villaggio era frequentato pure dalle forze dell’ordine, era di una persona assolutamente incensurata, un consigliere provinciale che poi ho saputo chiamarsi Aurelio Maccarone. A me tanto bastava per non crearmi problemi sulla struttura. Ho appreso solo dall’ordinanza per la quale sono stato arrestato che una delle persone con le quali l’avvocato Galati, e non io, si è intrattenuto a parlare sulla spiaggia del villaggio era la figlia di Pantaleone Mancuso, così come devo dire che un successivo pranzo a Vibo da Filippo’s in cui era presente pure Aurelio Maccarone – ha concluso Rodonò – è stato del tutto casuale”.
Precisa a questo punto la domanda del pm Annamaria Frustaci: “Ma lei, dottore Rodonò, era il vice capo della Squadra Mobile. Le informazioni sui posti da frequentare aveva bisogno che glieli dicesse l’avvocato Galati o non doveva avere piuttosto degli autonomi canali informativi per capire dove era opportuno andare anziché affidarsi alla sola parola di Galati visto che, nel caso del villaggio Costa degli dei, fra i proprietari vi era pure il genero di Mancuso”? Risposta di Rodonò: “Quello che mi ha riferito l’avvocato Galati sul villaggio Costa degli dei a me è bastato. Galati non mi disse che il villaggio era di un parente dei Mancuso. Del resto dovevo solo andare a trascorrere una giornata al mare, ho pagato e sono andato via, non mi sono posto il problema”.
Prossima udienza il 15 febbraio per il completamento dell’esame da parte del pm ed io contro-esame dell’avvocato Armando Veneto, difensore di Rodonò.