Autobomba di Limbadi, i giudici d’appello: «Non un omicidio di mafia, ma delitto nato dall’odio tra vicini»
Per i giudici le intercettazioni incastrano Rosaria Mancuso e il genero quali mandanti dell’esplosione costata la vita a Matteo Vinci. Il terreno conteso non apparteneva però ai Vinci-Scarpulla e non c’è stata alcuna estorsione ai loro danni. Le parti offese smentite nella ricostruzione di diversi episodi
Non si è trattato di un omicidio di mafia, non vi è stata alcuna estorsione relativa all’accaparramento di terreni agricoli da parte di Rosaria Mancuso e del suo nucleo familiare ai danni della famiglia Vinci-Scarpulla e la bomba costata la vita al biologo Matteo Vinci il 9 aprile 2018 a Limbadi è frutto di una “violenta contesa tra vicini, legata al possesso di un’area di terreno, che si è protratta, incancrenendosi e aggravandosi via via, per anni fino al giorno della drammatica esplosione che non è espressione di una più ampia condotta estorsiva”. Sono le conclusioni a cui arriva la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro che con il presidente Piero Santese (a latere il giudice Domenico Commodaro) ha depositato le motivazioni della sentenza che il 10 luglio scorso è costata la condanna all’ergastolo per Rosaria Mancuso, 66 anni, di Limbadi, e per il genero Vito Barbara, 30 anni (quest’ultimo con isolamento diurno per la durata di 11 mesi e 20 giorni). Per Domenico Di Grillo (marito di Rosaria Mancuso), 74 anni, di Limbadi, la pena è stata invece rideterminata in 6 anni (ricettazione di un fucile a pompa ed esclusione delle attenuanti generiche) in luogo dei 10 anni rimediati in primo grado (la Procura generale aveva chiesto per lui la condanna a 22 anni di reclusione). Infine per Lucia Di Grillo (figlia di Rosaria Mancuso) la pena è stata rideterminata in 3 anni in luogo dei 3 anni e 6 mesi del primo grado (la Procura generale aveva chiesto per lei la condanna a 14 anni di carcere). Impegnati nel collegio di difesa gli avvocati: Giovanni Vecchio e Francesco Capria per Rosaria Mancuso; Francesco Capria e Gianfranco Giunta per Domenico Di Grillo; Giovanni Vecchio e Fabrizio Costarella per Vito Barbara; Giovanni Vecchio e Stefania Rania per Lucia Di Grillo. L’accusa era rappresentata in aula dal sostituto procuratore generale di Catanzaro Marisa Manzini.
L’errore della Procura generale
I giudici di secondo grado nelle motivazioni “bacchettano” anche la Procura generale di Catanzaro. “Va premesso che la Procura generale – si legge nelle motivazioni della sentenza – pur chiedendo nell’atto d’appello la condanna degli imputati alle pene richieste dal Pm in sede di discussione nel giudizio di primo grado, non ha espressamente impugnato il capo della sentenza relativo al trattamento sanzionatorio, cosicché, in base al principio devolutivo che caratterizza il giudizio di appello deve escludersi che l’impugnazione della sentenza di primo grado in punto di responsabilità possa ritenersi implicitamente comprensiva anche della doglianza concernente il trattamento sanzionatorio”. In pratica, non avendo la Procura generale espressamente impugnato anche il trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza di primo grado, non avrebbe potuto invocare in appello pene diverse dalla prima sentenza.
Il terreno conteso non era dei Vinci-Scarpulla
Altro punto fermo della sentenza di secondo grado (come già della prima) è relativo all’effettiva proprietà del terreno conteso tra i Vinci-Scarpulla e i Mancuso-Di Grillo. Per i giudici d’appello è rimasto provato che “l’assunto secondo cui il terreno fosse stato acquistato illecitamente dalla Mancuso approfittando dello stato di incapacità naturale di Vinci Gaetana non aveva avuto sufficienti supporti probatori, risultando smentito dalla stessa Gaetana Vinci e anche dalle dichiarazioni dei figli”. Le dichiarazioni di Francesco Vinci e Sara Scarpulla (genitori di Matteo Vinci) anche per i giudici di secondo grado sono sul punto “inattendibili e scontano inevitabilmente una visione unilaterale degli eventi, incentrata sulla loro incrollabile certezza di avere un diritto di proprietà per usucapione sul bene immobile oggetto dell’acquisto da parte della Mancuso, con la conseguenza che Francesco Vinci aveva anche recintato il terreno prima dell’accertamento giudiziale dell’invocato acquisto per usucapione, sconfinando nei terreni di proprietà di Lucia Di Grillo, figlia della Mancuso”. Dall’esame dei testi e dalle dichiarazioni della dante causa emergono, quindi, “elementi in linea con la documentazione in atti, relativa alla vendita del fondo a Rosaria Mancuso, dapprima con preliminare (1991) e poi con atto pubblico e del resto – sottolineano i giudici in sentenza – nessun elemento corrobora la prospettazione accusatoria di un acquisto del terreno attraverso la violenza da parte di Rosaria Mancuso poiché va considerato che il notaio è per legge tenuto a verificare la capacità di agire della parte, non potendo in tal caso redigere l’atto”. Che poi la famiglia Di Grillo-Mancuso abbia ottenuto la proprietà di altri terreni vicini “con modalità alquanto sospette (vicenda Rombolà) non può portare ad affermare – sottolineano i giudici d’appello – l’illegalità di tutti gli acquisti posti in essere dagli imputati”. Non essendo quindi emersi elementi di riscontro a sostegno delle dichiarazioni delle persone offese, la contestazione di estorsione per ottenere il terreno è da ritenere per i giudici “infondata per insussistenza del fatto, perché, in assenza di elementi da cui inferire che la conflittualità tra le parti sia insorta per i tentativi della famiglia Di Grillo-Mancuso di impadronirsi della terra dei Vinci, anche i reati consumatisi il 30 ottobre 2017 (aggressione ai danni di Francesco Vinci) e il 9 aprile 2018 (autobomba costata la vita a Mattero Vinci) non possono essere qualificati quali manifestazioni dell’unitaria condotta estorsiva — così come invece ricostruito dalla Procura — trovando la loro ragion d’essere, piuttosto, nei rapporti di aspra conflittualità, sfociati in sentimenti di odio reciproco tra i due gruppi familiari”.
Il bastone e Sara Scarpulla
A minare la credibilità di Rosaria Scarpulla, anche uno specifico episodio al quale la Corte d’Assise d’Appello (come già i giudici di primo grado) attribuisce notevole peso. “Successivamente all’omicidio del figlio Matteo Vinci – precisamente in data 27 maggio 2018 – Sara Scarpulla aveva presentato una denuncia relativa ad un atto di implicita minaccia consistente nel ritrovamento – che aveva avuto vasta eco mediatica – dinanzi alla sua abitazione di un bastone, ignorando che fosse stata la cognata Pasqualina Corso a lasciarlo inavvertitamente in quel luogo. Ebbene, dall’attività captativa era emerso che la Scarpulla – spiegano i giudici – pur divenuta consapevole della circostanza per averne appreso proprio dalla Corso, avesse comunque invitato la cognata a rendere una versione dei fatti da affidare alla stampa che riconducesse in ogni caso l’episodio alle minacce del contrapposto nucleo familiare”. Gli “alterchi tra le parti” sarebbero stati quindi continui negli anni poiché agli atti sono risultate diverse controversie giudiziarie “per spossessamento e regolamento di confini tra le famiglie Di Grillo e Vinci. La situazione conflittuale – ricordano i giudici in sentenza – è poi sfociata nel grave episodio criminoso del 30 ottobre 2017” quando Francesco Vinci è stato aggredito da Vito Barbara con un forcone restando a terra quasi privo di vita. “Orbene, tali elementi, che configurano reciproci atti di molestie e violenze, imponevano correttamente alla Corte di primo grado la verifica rigorosa dell’attendibilità delle persone offese, che indubbiamente – sostiene la Corte d’Assise d’Appello – soffrono di una visione assolutamente soggettiva degli eventi, ingigantendo episodi a danno del nucleo familiare rivale”.
Il pestaggio di Francesco Vinci
I giudici in sentenza smentiscono anche il racconto di Francesco Vinci che aveva accusato il vicino Domenico Di Grillo di averlo minacciato il 30 ottobre 2017 (giorno del brutale pestaggio) puntandogli una pistola alla pancia. Sono le intercettazioni all’ospedale di Palermo (dove Francesco Vinci era stato ricoverato dopo le gravi ferite a causa dello scoppio dell’autobomba del 9 aprile 2018), captate tra Francesco Vinci e un carabiniere, a dare contezza ai giudici che la persona offesa nel raccontare la dinamica dell’aggressione non ha fatto riferimento ad alcuna pistola bensì ad un solo forcone. “A ciò va aggiunto – sottolineano i giudici – che il Vinci non ha riferito della minaccia con la pistola neppure nell’immediatezza dei fatti ai primi soccorritori e non lo ha riferito neppure alla moglie, allorquando era presente il nipote Vinci Giuseppe ma, secondo la versione della Scarpulla, solo successivamente”. La dinamica della minaccia con l’arma da sparo – come asseritamente raccontata dal Vinci alla moglie e riferita da quest’ultima (ma non confermata in dibattimento, allorquando il Vinci ha dichiarato di essere stato picchiato dal Barbara e minacciato con l’arma dal Di Grillo) – è per la Corte “inverosimile in quanto l’utilizzo dell’arma in tal modo sarebbe avvenuto mentre anche l’altra mano era impegnata, cosicché lo stesso aggressore Di Grillo, peraltro anziano e malfermo, si sarebbe esposto al rischio di essere disarmato o all’esplosione accidentale di un colpo”. La Corte d’Assise d’Appello aggiunge poi che “appare anche inverosimile che il medico, ricevendo il racconto di una minaccia con la pistola ai danni di Vinci, non l’avesse segnalato carabinieri nell’immediatezza”. Francesco Vinci aveva poi raccontato che nel corso dell’aggressione del 30 ottobre 2017 era presente sul posto anche Rosaria Mancuso che avrebbe spronato i congiunti (marito e genero) di uccidere il vicino. Una circostanza per i giudici smentita dalle intercettazioni in quanto è provato che Domenico Di Grillo dopo la lite con Francesco Vinci ha chiamato al telefono la moglie, Rosaria Mancuso, per raccontarle della lite con Vinci. “Essendo i due imputati conviventi, se fossero stati presenti entrambi durante l’aggressione – spiegano i giudici – non avrebbero avuto alcun motivo per sentirsi al telefono”. Cade quindi per tale episodio il reato di tentato omicidio ai danni di Francesco Vinci, riqualificato in lesioni personali gravi ed è rimasto provato che Domenico Di Grillo si è aggrappato alle gambe del genero, Vito Barbara, implorandolo di smettere di colpire Francesco Vinci con un bastone per non ucciderlo. “Sebbene l’aggressione fosse oggettivamente idonea a causare la morte di Vinci Francesco – come risulta dalle dichiarazioni dei medici – difetta nel caso di specie la prova dell’elemento psicologico del tentato omicidio” e da qui la riqualificazione del reato in lesioni gravi. Per la Corte, inoltre, “Francesco Vinci è un uomo chiaramente accecato dall’odio verso i Di Grillo-Mancuso e nel contempo legato in maniera viscerale a una visione sacrale della proprietà terriera, tipica delle comunità contadine”.
L’autobomba e le condanne all’ergastolo
L’autobomba costata la vita a Matteo Vinci per i giudici non è dunque un omicidio di mafia poiché la sola stretta parentela di Rosaria Mancuso “a esponenti di spicco di un gruppo criminale storico e temuto del territorio” (sorella dei boss Giuseppe, Diego, Francesco e Pantaleone Mancuso) non può “ex se comportare la sussistenza dell’aggravante contestata, indipendentemente dallo strumento utilizzato per l’omicidio”. L’accusa non ha portato elementi per ritenere Rosaria Mancuso affiliata all’omonimo clan e neppure il marito Domenico Di Grillo, oltre al fatto che il terreno conteso non è stato acquistato dai Di Grillo-Mancuso attraverso una condotta estorsiva. Per la Corte si è dunque in presenza “di una violenta contesa tra vicini, legata al possesso di un’area di terreno, che si è protratta per anni, incancrenendosi e aggravandosi via via fino al giorno della drammatica esplosione e che non è espressione di una più ampia condotta estorsiva”. Ed è significativo del fatto che la bomba non sia stata collocata dai Mancuso, intesi come cosca (ed anche da ciò l’esclusione delle aggravanti mafiose), anche la circostanza – sottolineata in sentenza – che Luigi Mancuso, boss indiscusso dell’intero casato mafioso, si sia dissociato dall’autobomba andando a fare personalmente le condoglianze a Rosaria Scarpulla per la morte di Matteo Vinci.
“L’atto omicidiario consumato, per quanto possa sembrare inconcepibile a chi giudica – rimarcano i giudici in sentenza – va contestualizzato nell’ambito culturale di riferimento, caratterizzato da un ancestrale, viscerale attaccamento alla proprietà terriera, sentimento che è del resto origine e filo conduttore dell’annoso contrasto tra le due famiglie”. È rimasto quindi accertato che l’autobomba è stata collocata sotto l’auto guidata da Matteo Vinci attraverso una calamita (anche se non è stato possibile stabilire che si sia trattato di un congegno di attivazione radiocomandato a tempo o a pressione) nella parte anteriore “tra la pedaliera e il sedile di guida”: ecco perché la deflagrazione ha avuto effetti devastanti sul povero Matteo che si trovava alla guida, mentre il padre è riuscito a salvarsi (pur rimanendo gravemente ferito) uscendo dal finestrino nel frattempo saltato in aria. Le conclusioni del consulente della difesa degli imputati sono risultate sul punto “tecnicamente inconsistenti in quanto fondate su circostanze smentite dai rilievi tecnici dei carabinieri del Ris” secondo i quali l’ordigno non è stato collocato all’interno dell’auto ma sotto la vettura (nessun riscontro, quindi, alla tesi della difesa – “mera congettura” la definiscono i giudici – che sosteneva che la bomba fosse stata trasportata da Matteo Vinci sotto il sedile per colpire i rivali Di Grillo-Mancuso).
Sono quindi le intercettazioni ad incastrare Rosaria Mancuso e il genero Vito Barbara (marito della figlia) quali mandanti dell’autobomba (anche se resta il dubbio che Barbara abbia pure partecipato materialmente ad azionare la bomba). Il movente del tragico fatto di sangue va ricercato dai giudici nei rapporti di odio tra i due gruppi familiari, tanto che Vito Barbara definisce nelle intercettazioni Francesco Vinci come un “cancro”. Le intercettazioni hanno offerto alla Corte altri dati valutativi ritenuti importanti, ovvero il fatto che nelle captazioni sia Rosaria Mancuso che Vito Barbara mai si sono chiesti chi potesse essere stato l’autore di un fatto così efferato (l’autobomba), dando per scontata la loro responsabilità, tanto che “Vito Barbara si rammaricava di non aver eliminato Vinci Francesco in precedenza e manifestava alla Mancuso il proposito di ucciderlo”. Per la Corte è inoltre “chiarissimo il significato di altre affermazioni di Vito Barbara, che non si possono prestare ad altre ragionevoli interpretazioni: anche se Vinci Francesco fosse sopravvissuto all’attentato, una volta tornato a casa di rientro dall’ospedale non ci sarebbe stato più bisogno di eliminarlo fisicamente (significativo è il termine “pulizzamu”) perché le forze dell’ordine sarebbero state sempre presenti sul posto, vicini a loro per proteggerli e quindi il Vinci non avrebbe più potuto porre in essere azioni di disturbo – secondo Barbara – relativamente alle reciproche pretese sul terreno”. Sempre Barbara avrebbe poi detto nelle intercettazioni che qualora Francesco Vinci fosse sopravvissuto era sempre pronta un’altra azione di morte nei suoi confronti (in dialetto “u ripuglju” e “la chiudiamo qui”), mentre Rosaria Mancuso – dopo essere stata rassicurata dal genero circa l’assenza di telecamere lungo il tragitto che portava al luogo dove era scoppiata l’autobomba – si tranquillizzava esclamando: “La pace è con noi”. Per la Corte, dunque, nei confronti di entrambi gli imputati esiste “un coacervo indiziario grave, univoco e concordante in ordine ai delitti contestati e avvinti dal medesimo disegno criminoso. La valutazione unitaria delle risultanze probatorie consegna invero una lettura univoca delle stesse che non ammette ricostruzioni alternative. Con riferimento alle condotte dei due imputati a titolo di concorso, l’assenza di prove riguardo a chi materialmente collocò la bomba non impedisce di ritenere la sussistenza della loro responsabilità quali mandanti”.
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