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«Pezzi della Chiesa troppo vicini ad ambienti mafiosi»: dal palco di Libera a Vibo i vescovi rilanciano l’allarme sulla ’ndrangheta in sagrestia

La denuncia di monsignor Oliva nella seconda giornata dell’evento Contromafiecorruzione: «Appena nominato fui avvicinato da un mafioso». Il presule di Cassano Savino: «Cosche, massoni deviati e corrotti sono il male della Calabria»

«Pezzi della Chiesa troppo vicini ad ambienti mafiosi»: dal palco di Libera a Vibo i vescovi rilanciano l’allarme sulla ’ndrangheta in sagrestia

È stato un confronto senza infingimenti quello che si è tenuto nel corso del panel “Il ruolo della Chiesa nel contrasto alla ‘ndrangheta: da don Italo Calabrò a papa Francesco”.
Si è parlato di un rapporto fatto di «luci e ombre» tra la Chiesa e la ‘ndrangheta.
Nella seconda giornata di incontri organizzata da Libera nell’ambito della manifestazione “Contromafiecorruzione” i relatori non hanno nascosto le ombre presenti all’interno di «pezzi della Chiesa» troppo vicini ad ambienti mafiosi.
Il dato importante è che i relatori erano vescovi, sacerdoti, e un giornalista ribelle ma capace di tifare per un papa che ha detto «La mafia è adorazione del male. I mafiosi sono scomunicati». Era il 2014 e il giornalista Michele Albanese stava ascoltando papa Francesco nella Piana di Sibari.

Se la mafia cerca di penetrare nelle sagrestie

Così monsignor Franco Oliva, vescovo di Locri-Gerace non nasconde che «la mafia è anche un problema religioso, cerca di penetrare nelle nostre sagrestie. La Chiesa non può essere distratta».
Il vescovo Oliva ha raccontato il suo primo incontro con uno ‘ndranghetista all’indomani del suo insediamento in Calabria. L’uomo, ha raccontato il vescovo, con modi gentili e affabili, avrebbe voluto «quasi convincermi della bontà della mafia». Perché «la mafia ti irretisce con gentilezza, ti corrompe con grande facilità». Così lo ‘ndranghetista parlò al vescovo della bontà dell’operato delle cosche che si adoperavano a cercare lavoro per chi non lo aveva. «Si cerca di crescere nel consenso popolare».

I beni sequestrati, vittorie e fallimenti

I mafiosi si sostituiscono alla Stato che non dà lavoro. Il mafioso vuole dimostrare che lo Stato è lontano, la mafia è vicina». Una ragione in più per combattere la criminalità «non solo con la parola ma anche con l’azione». Ecco perché, dice Oliva, la Curia ha accettato di prendere i beni sequestrati per creare, ad esempio, un centro di aggregazione giovanile a Platì, o un centro di formazione a San Luca.
Lo scoglio da superare, ancora, è la reticenza della gente. Pochi i cittadini che si presentano alla consegna dei beni sequestrati. E non sono mancati anche i fallimenti laddove la comunità non si è avvicinata alle attività avviate nell’immobile confiscato.
Monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio e vicepresidente della Cei, anche lui ha parlato di qualche fallimento rispetto ai beni sequestrati. Nel suo caso c’era un grosso progetto su un immobile che è poi «improvvisamente tornato alla cosca di appartenenza». Decisione, racconta il vescovo, presa da un giudice poi «assurto agli onori della cronaca per ipotesi di corruzione».

Preti don Abbondio e preti frà Cristoforo

Nel corso del panel, moderato da don Pino Demasi, si è parlato di preti don Abbondio e preti frà Cristoforo, ovvero sacerdoti pavidi e corruttibili e sacerdoti coraggiosi. Tra questi ultimi sono stati citati don Italo Calabrò, parroco di Reggio Calabria e pioniere della lotta alla ‘ndrangheta. Don Italo è stato ricordato, in particolare, da don Giacomo Panizza, fondatore della comunità Progetto Sud. Il prete di Reggio pagò sulla propria pelle il prezzo del coraggio. «Quando è venuto Craxi a Reggio Calabria non ha attaccato la Chiesa, ha attaccato don Italo», ricorda Panizza.

Anche don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel 1994 a Casal di Principe, è tutt’ora vittima di pregiudizio e dicerie. Lo racconta il vescovo Savino: «Sapete perché non inizia il processo di beatificazione di don Peppino? – ha detto – Perché persiste la diceria che la causa della morte fosse una sua relazione con la moglie di Sandokan», al secolo Francesco Schiavone, boss dei Casalesi.
C’è poi, don Pino Puglisi ucciso perché «toglieva i bambini dalla strada», sottraendo manovalanza alla mafia siciliana.

Il teorema del triangolo isoscele e la povertà educativa

Monsignor Savino porta l’esempio del triangolo isoscele per spiegare il male che attanaglia la Calabria, e non solo.
Il triangolo isoscele ha i due lati al vertice uguali: sono, rispettivamente, la ‘ndrangheta e la massoneria deviata. La base che regge il triangolo è invece formata dalla parte più corrotta tra i colletti bianchi, burocrati, politici e dirigenti.
In questo clima, ha ricordato don Pino Demasi, «la più grande forma di povertà è la povertà educativa. C’è bisogno di educare per sconfiggere la mafia».

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