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«Non le hanno viste arrivare»: sul palco di Libera a Vibo il racconto di come le donne hanno conquistato il potere nella ‘ndrangheta

La «rivoluzione epocale» per i clan calabresi è uno dei temi nel secondo giorno di convegni di Contromafiecorruzione. Si è parlato anche del coraggio con cui le madri hanno sradicato i figli dalle radici criminali

«Non le hanno viste arrivare»: sul palco di Libera a Vibo il racconto di come le donne hanno conquistato il potere nella ‘ndrangheta

C’è un ricordo rimasto indelebile nella memoria del procuratore del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Palma.
Il nove marzo di qualche anno fa, nel carcere di Palmi, un boss incontra la moglie, la figlia e la nipotina. Chiede loro come abbiano trascorso, il giorno precedente, la festa della donna. Orgogliose le donne dicono che la piccola ha imparato un ballo. La issano sul tavolo e nella sala si fa silenzio perché la nipote del boss sta per esibirsi. La bambina obbediente prende a ballare mentre si accompagna con il canto «viva la ‘ndrangheta, viva la ‘ndrangheta».
Un ricordo che il magistrato ha narrato, insieme a tanti altri, nel corso di uno degli incontri organizzati nella tre giorni di Libera a Vibo Valentia “Contromafiecorruzione”. Il panel al quale ha partecipato Di Palma – moderato dalla ricercatrice dell’Unical Sabrina Garofalo – si intitolava “Donne e ‘ndrangheta: violenza organizzazione, ricerca di strade di liberazione”.

Il ruolo delle madri di ‘ndrangheta

«Il ruolo delle madri di ‘ndrangheta ha un forte riverbero sull’educazione dei figli», ha spiegato il procuratore che ha esperienza sui disvalori ai quali vengono indirizzati, fin dalla nascita, ragazzi e ragazze: l’omertà, l’dea della vendetta, la strada dell’illegalità per arricchirsi, i maschi di ‘ndrangheta che non devono lavorare, i fidanzamenti solo con persone legate alla criminalità.
Entra in questo contesto il tema della potestà genitoriale: i genitori devono rispondere allo Stato di come stanno educando i futuri cittadini adulti.

Il protocollo Liberi di Scegliere

Difronte a gravi problemi educativi la potestà genitoriale può decadere. Nel caso delle famiglie di ‘ndrangheta è nato il protocollo Liberi di Scegliere, ideato dal giudice Roberto Di Bella negli anni in cui era presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria. Si tratta di un programma volto a tutelare i ragazzi e le madri che vogliono allontanarsi dai contesti mafiosi. Nei casi in cui decada la potestà genitoriale il minore viene allontanato dalla famiglia di mafia e affidato a una famiglia lontana dalle logiche criminali fino all’età di 18 anni. Raggiunta la maggiore età il ragazzo, dopo aver conosciuto anche una realtà diversa da quella in cui era nato, sarà libero di scegliere in quale direzione incanalare la propria vita. Il procuratore Di Palma ha raccontato che, a fronte della scelta di un giovane, rientrato nell’ambiente mafioso e tratto in arresto perché trovato con 400 chili di cocaina, ci sono centinaia di casi di ragazzi che non si sono più voltati indietro.

«Le mafie educano»

«Le mafie educano», ha detto Patrizia Surace di Libera, impegnata nel progetto Liberi di Scegliere. Educano alla prevaricazione, all’omertà, a sentire le istituzioni come nemiche, la scuola come un orpello. Allo stesso tempo, oggi, «molte madri, di nascosto, mentre vengono celebrati i processi dei figli, vanno negli uffici del Tribunale per i minori per chiedere aiuto. Non vogliono che i loro ragazzi debbano vivere quello che hanno vissuto loro». Ecco perché, come ha detto la senatrice Enza Rando, presidente del comitato “Cultura della legalità e protezione minori” all’interno della commissione parlamentare Antimafia, «questo fenomeno ha bisogno di una cornice legislativa. Lo Stato se ne deve fare carico».

Rendere conveniente la scelta di staccarsi dalle mafie

Una autodeterminazione, quella delle madri che si sradicano dai contesti mafiosi, molto ammirata anche dal sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci. «Queste donne – ha detto il pm – non hanno avuto le possibilità che io ho avuto crescendo in un ambiente sereno e potendo scegliere cosa fare della mia vita. Ammiro la determinazione di riesce a tagliare i ponti con radici profonde come possono essere quelle ‘ndranghetiste. Oggi bisogna lavorare perché si renda conveniente fare questa scelta».

Lavorare per migliorare la quotidianità dei collaboratori di giustizia

Il riferimento del magistrato non è solo diretto alla scelta delle madri ma anche a quella dei collaboratori di giustizia. Secondo il pm Frustaci oggi è necessario «ascoltare e formare anche i referenti territoriali del Servizio centrale di protezione che possiede le chiavi della gestione della collaborazione». Il sostituto della Dda, che con i collaboratori ha un rapporto quotidiano, ha parlato della necessità di migliorare la cura della gestione della quotidianità dei collaboratori anche implementando il supporto di psicologi e puntando alla formazione del personale. Perché il riverbero di questo lavoro poi si ha nelle aule di giustizia.
«Noi chiediamo ai collaboratori serietà e verità – ha detto il magistrato – ma anche noi dobbiamo essere onesti e seri».
D’altronde con quale animo può affrontare un’udienza un collaboratore al quale è stato impedito, per ragioni di disorganizzazione, di dare un ultimo saluto alla madre morente? Cosa rispondere a un collaboratore che dice «dottoressa, lo Stato mi ricorda la mia famiglia»?

Il «mutamento epocale» delle donne reggenti di ‘ndrangheta

Accanto alle madri coraggiose oggi all’interno della ‘ndrangheta «rileviamo un mutamento epocale», ha spiegato il pm Frustaci. Oggi, infatti, troviamo donne recluse al 41bis per associazione mafiosa. Le calabresi sono tre: Aurora Spanò, appartenente alla famiglia Bellocco dominante su San Ferdinando, Tresa Gallico dell’omonima cosca di Palmi, e Nella Serpa, reggente della cosca paolana.

Le donne «non le hanno viste arrivare» ai vertici delle cosche

Le donne sono diventate reggenti «per fatti accidentali» come la decapitazione della consorteria di appartenenza in seguito agli arresti dei vertici apicali maschili, o per la morte di questi in seguito a faide mafiose. Da custodi dei valori di ‘ndrangheta, le donne hanno fatto un passaggio ulteriore, anche se scaturito da fatti accidentali, e questo «ha permesso a ‘ndrangheta e cosa nostra di sopravvivere», grazie al fatto, parafrasando un famoso libro sul femminismo, che le donne che prendevano le redini del potere mafioso «non le hanno viste arrivare».

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