Omicidio Piccione a Vibo, i giudici in sentenza: «Un capro espiatorio, punito per un’errata vendetta da parte del clan Lo Bianco»
Depositate le motivazioni da parte della Corte d’Assise di Catanzaro che costano la condanna all’ergastolo per Salvatore Lo Bianco e 28 anni di reclusione per Rosario Lo Bianco. Il delitto fortemente voluto dal defunto boss Carmelo Lo Bianco, alias “Sicarro”
Depositate le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro – presieduta dal giudice Massimo Forciniti, con giudice a latere Giovanni Strangis – relative all’omicidio del geologo Filippo Piccione, avvenuto a Vibo Valentia in via Dante Alighieri la domenica di carnevale del 21 febbraio 1993, intorno alle ore 21:15. Ergastolo per Salvatore Lo Bianco, 52 anni, detto “U Gniccu”, mentre il cugino Rosario Lo Bianco, 54 anni, detto “Sarino Pompa” è stato condannato a 28 anni di reclusione, con il riconoscimento delle attenuanti generiche. Dalle motivazioni della sentenza emerge un primo dato di fatto: il delitto di Filippo Piccione è stato voluto principalmente dal boss Carmelo Lo Bianco (cl. ’45), alias “Sicarro”, (deceduto nel dicembre del 2016), intenzionato a vendicare l’omicidio di Leoluca Lo Bianco (cl. ’68, figlio di un fratello del boss Carmelo Lo Bianco), avvenuto l’1 febbraio 1992 in contrada Nasari a Vibo, freddato con colpi di fucile partiti dalla proprietà di Piccione. La sentenza si incarica di stabilire altro dato certo: con l’omicidio di Leoluca Lo Bianco nulla aveva a che fare Filippo Piccione, punito quindi erroneamente dal clan Lo Bianco nella convinzione – sbagliata, come sottolineato dai giudici in sentenza – che il geologo (“il primo geologo della Calabria”, come si legge in sentenza) fosse coinvolto nella soppressione di Leoluca Lo Bianco. Per la ricostruzione degli eventi e delle responsabilità in ordine all’omicidio di Filippo Piccione, per la Corte fondamentali si sono rivelate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, Andrea Mantella (al quale in un primo tempo lo stesso Carmelo Lo Bianco aveva proposto l’omicidio di Piccione) e Bartolomeo Arena, con quest’ultimo che ha dichiarato sia di essere stato presente sulla scena del delitto pochi minuti dopo l’omicidio, sia di aver raccolto la “confessione” di Salvatore Lo Bianco in ordine all’esecuzione dell’omicidio (avvenuto con il killer – indicato ora anche dalla sentenza in Salvatore Lo Bianco – con il volto coperto da una maschera di carnevale) di Filippo Piccione.
Altrettanto fondamentali per la ricostruzione delle singole responsabilità penali si sono rivelate anche le dichiarazioni di Antonio Grillo, alias “Totò Mazzeo”, deceduto da qualche anno e che aveva avviato una clamorosa collaborazione con la giustizia sottoscrivendo alcuni verbali acquisiti nel processo. Proprio Antonio Grillo ha “confessato” in tali verbali di aver preso parte all’omicidio di Filippo Piccione, finendo per chiamare in causa sia Salvatore Lo Bianco quale esecutore materiale dell’omicidio, sia Rosario Lo Bianco (genero del defunto boss Carmelo Lo Bianco, alias “Sicarro”) che avrebbe fatto da “palo” avvertendo gli esecutori materiali in ordine agli spostamenti della vittima designata. Ad accompagnare Salvatore Lo Bianco nella “missione di morte”, anche il cugino Nicola Lo Bianco (cl ’72, figlio di “Sicarro”), quest’ultimo poi a sua volta vittima della “lupara bianca” nel 1997. Pure Nicola Lo Bianco avrebbe indossato nell’occasione una maschera di carnevale. A sparare i colpi di pistola all’indirizzo di Filippo Piccione, a due passi da piazza Municipio e nei pressi dell’abitazione della vittima, per i giudici è quindi stato Salvatore Lo Bianco (“U Gniccu”). Le contestazioni per Salvatore e Rosario Lo Bianco erano aggravate dalla premeditazione e dalle finalità mafiose in quanto il delitto sarebbe maturato nell’ambito delle logiche interne al clan Lo Bianco.
La Corte d’Assise nelle motivazioni della sentenza – ai fini della responsabilità dell’omicidio ascrivibile alla cosca Lo Bianco – si è soffermata pure sul racconto in aula da parte di Gianluca Piccione, colonnello dei carabinieri e figlio della vittima, che ha riferito pure in ordine al racconto che gli fece lo zio Domenico sul brindisi con i calici alzati fatto da alcuni esponenti della famiglia Lo Bianco, che si erano radunati in un bar il giorno del funerale di Filippo Piccione, al passaggio del feretro. Un particolare significativo per i giudici sul coinvolgimento del clan Lo Bianco nel delitto. Filippo Piccione, dunque, per la Corte d’Assise ha pagato con la vita solo “per essere stato il proprietario del fondo da cui era partita l’azione di fuoco nei confronti di Leoluca Lo Bianco”, ma che nulla aveva a che vedere con tale fatto di sangue. Per la Corte, Filippo Piccione è stato solo un “capro espiatorio”, una persona verso la quale i Lo Bianco provavano un forte astio anche a causa delle sue continue denunce in ordine ai danneggiamenti che subiva sul suo fondo agricolo in contrada Nasari. Per i giudici è altresì credibile il racconto del collaboratore di giustizia, Andrea Mantella, laddove afferma che “nell’attività preparatoria all’azione di fuoco si era presa in considerazione l’ipotesi di vendicarsi colpendo il guardiano del fondo del Piccione, un soggetto di Pannaconi, proposito però accantonato – si legge in sentenza – dopo il confronto avuto, a dire del Mantella, tra lo stesso soggetto di Pannaconi con Domenico Lo Bianco che viveva da quelle parti, circostanza in cui tale guardiano giustificava il suo operato”. È rimasto in ogni caso accertato che la notte dell’omicidio di Filippo Piccione “venne effettuata una perquisizione a casa dell’imputato Salvatore Lo Bianco dal cui verbale risulta essere presente solo il padre Antonino Lo Bianco”.
Le parti civili nel processo erano assistite dagli avvocati Francesco Gambardella e Danilo Iannello che rappresentavano quindi i familiari della vittima: Concetta Maria Valente (moglie di Filippo Piccione), Francesca Piccione, Gianluca Piccione, Rocco Piccione, Domenico Piccione, Elisabetta Piccione (figli di Filippo Piccione). Salvatore Lo Bianco è stato difeso dagli avvocati Giuseppe Orecchio e Vincenzo Gennaro, mentre Rosario Lo Bianco è stato assistito dall’avvocato Patrizio Cuppari.
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