Vibo “triangolo della lupara bianca”: sono oltre 50 gli omicidi in cui non è stato mai ritrovato il corpo: da Chindamo a Vangeli, da Luzza ad Aloi
La provincia vibonese registra il più alto numero di delitti di questo tipo. L'inchiesta pubblicata su Lavialibera, periodico di Libera e Gruppo Abele
Più di 50 “omicidi senza cadavere”: siamo in quella porzione della provincia di Vibo Valentia, nota alle cronache come il «triangolo della lupara bianca», che comprende anche altri comuni come Francavilla Angitola e Curinga, incastonati tra viali impervi e distese boschive teatro di una criminalità brutale, di noti clan di ’ndrangheta e sanguinose faide. “Gli scomparsi di mafia” il titolo dell’inchiesta nell’ ultimo numero de lavialibera, periodico di Libera e Gruppo Abele, che accende i riflettori sulla provincia di Vibo Valentia che registra il più alto numero di omicidi in cui non viene ritrovato il corpo degli uccisi, seppelliti vivi o gettati in pasto ai maiali. Il lavoro sarà presentato durante Contromafiecorruzione di Libera che si svolgerà da venerdì 18 a domenica 20 ottobre presso la Scuola di Polizia di Vibo Valentia. Tre giorni di riflessione, incontri, lavori di gruppo per una nuova proposta di rinnovamento dei percorsi, dei linguaggi e degli strumenti legislativi nella lotta alle mafie e alla corruzione e per ribadire l’importanza della rete sociale contro la ‘ndrangheta e per porre al centro alcune questioni.
Omicidi senza cadavere
Quella dei delitti senza cadavere è una casistica tutta calabrese, divenuta nota dopo il caso di Maria Chindamo, imprenditrice della quale si sono perse le tracce il 6 maggio 2016 davanti al cancello dei suoi terreni agricoli a Limbadi. Vicende segnate dalle lacrime di figli, sorelle, fratelli, madri che si rivolgono agli aguzzini dei propri cari per poter avere indietro le loro spoglie mortali. Come spiega a lavialibera Marisa Manzini, sostituto procuratore generale di Catanzaro, «l’assenza di un corpo impedisce di fare gli accertamenti e di capire quali siano state le dinamiche del delitto, l’arma, le modalità della morte della persona. Così è molto più semplice per chi commette il reato rimanere impunito».
Dietro a questo modus operandi si cela «una crudeltà non da poco». I pentiti raccontano di persone interrate prima ancora di esalare l’ultimo respiro, di corpi ridotti a brandelli e dati in pasto ai maiali. «Si bruciano e dopo si rompono e si seminano» e i resti diventano «letame per le piante di noce», racconta il collaboratore Carlo Vavalà ricostruendo la dinamica dietro alla scomparsa, il 23 gennaio 1990, del giovane meccanico di Porto Salvo Francesco Covato. «Aggiungere all’uccisione anche l’occultamento del cadavere rende la cosa ancor più crudele e confonde chi la subisce – continua Manzini –, nelle faide interne lascia il dubbio su chi possa essere stato l’autore; esprime la volontà di fare doppiamente male, anche ai familiari, che non possono piangere il defunto». Sono tanti i casi raccontati ne lavialibera: Francesco Aloi, 22enne scomparso a Filadelfia il 16 settembre 1994; Francesco Vangeli, 26enne artigiano scomparso il 9 ottobre 2018 a San Giovanni di Mileto, Pino Russo Luzza, 21enne operaio edile scomparso ad Acquaro il 15 gennaio 1994. La pratica è usata dai clan anche per aver ragione di conflitti interni, per eliminare testimoni scomodi – spesso anche involontari – delle attività criminali, mettere in atto vendette, come sarebbe stato nel caso di Roberto Soriano, scomparso nel 1996 per volere del clan di San Gregorio d’Ippona.
Il modo di agire della ‘Ndrangheta
Dietro molti casi di desaparecidos calabresi, venuti alla luce tra l’Angitolano e le Preserre vibonesi, ci sono relazioni pericolose in un contesto intriso di cultura mafiosa e animato da un concetto perverso di onore, dove la donna è spesso concepita come merce da investire in unioni forzate e matrimoni combinati. «Le indagini sulla sparizione di diversi giovani uomini – spiega Manzini – hanno portato a supporre che siano stati uccisi e fatti sparire perché avevano intessuto relazioni pericolose con donne di ’ndrangheta».
«Le modalità crudeli e violenti nell’agire nei casi di “lupara bianca” evidenziano – dichiara Giuseppe Borrello, coordinatore di Libera Calabria -il carattere contraddittorio dell’agire ‘ndranghetista. Da un lato capace di invadere i mercati finanziari anche grazie all’utilizzo delle più moderne tecnologie, dall’altro asservita a una sottocultura patriarcale e antiquata che si manifesta soprattutto nei casi di lupara bianca. Una modalità atroce per far fuori una persona che secondo quei codici e leggi si sarebbe macchiata di una colpa talmente grave da rendere necessario cancellarne ogni traccia. Oltre al corpo, se possibile, anche la memoria, fonte di fastidio e imbarazzo per i cosiddetti uomini d’onore».
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