mercoledì,Dicembre 25 2024

Limbadi, cerimonia in memoria di Pantaleone Sesto, i familiari: «Non siamo stati coinvolti»

Carmen e Cecilia Sesto, nipoti del ventenne morto nel campo di concentramento di Dachau, manifestano il loro dispiacere per la gestione dell'evento da parte del sindaco criticando anche "l'erronea narrazione" della storia dello zio

Limbadi, cerimonia in memoria di Pantaleone Sesto, i familiari: «Non siamo stati coinvolti»
I registri di Dachau e, nel riquadro, Pantaleone Sesto
Il sindaco di Limbadi, Pantaleone Mercuri

“Apprendiamo dalla stampa e dai social della avvenuta cerimonia con la quale l’amministrazione del Comune di Limbadi, sollecitata dalle Autorità scolastiche, ha voluto onorare la memoria di nostro zio Pantaleone, deportato dai nazisti e morto nel campo di concentramento di Dachau. Nel ringraziare sentitamente, esprimiamo al contempo, e a pieno titolo, il nostro profondo disappunto per le modalità con le quali si è condotta tale cerimonia: senza darcene notizia alcuna e con carente, univoca e a volte erronea narrazione”. Inizia così la lettera aperta e indirizzata al sindaco di Limbadi, Pantaleone Mercuri, da parte di Carmen e Cecilia Sesto, nipoti del ventenne di Limbadi morto nel campo di concentramento di Dachau. “Ci rivolgiamo a Lei, non ad altri, -proseguono le familiari – per il carattere istituzionale rappresentato dall’iniziativa, mosse non da spirito polemico ma dal rispetto di valori e di appartenenza, al di là di ogni retorica commemorativa. Converrà che il non averci dato informazione di un avvenimento che, prima ancora della sua connotazione pubblica e celebrativa, ne ha una rigorosamente privata, richieda quanto meno l’opportunità di una plausibile motivazione. La storia, prima di noi, è scritta dai padri, dai nonni e dalle interrelazioni che passando da vita a vita ne ricercano i fatti e li uniscono ai racconti, preservandone la memoria e tramandandone significato e insegnamento. Con questa consapevolezza, a premessa, la preghiamo di leggere questo nostro contributo, sia pure piccolo e tardivo, alla ricerca della contemporaneità di un passato su cui si dovrebbero fondare le radici di tutti. Non è vero che si riscopre oggi e per la prima volta la storia di Pantaleone Sesto. Il dott. Pantaleone Sergi, osservatore acuto della società calabrese, giornalista, scrittore, storico già presidente dell’ICSAIC (Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea) oltre che sindaco di Limbadi negli anni 2002-2007, ne aveva dato pubblico riscontro con documenti cartacei e approfondite ricerche. Averlo dimenticato in un evento che intendeva “ricostruire la storia” è per noi inammissibile. A lui ancora oggi, rinnoviamo i nostri ringraziamenti soprattutto per il puntuale contributo dato alla ricostruzione degli ultimi mesi di vita di nostro zio. Ma è soprattutto ai racconti e agli insegnamenti di nostro padre Antonino che vanno i nostri rimandi e il merito di averne custodito e tramandato la memoria. Disconoscerlo o ridurlo a muto spettatore è per noi inaccettabile”.

Carmen e Cecilia Sesto proseguono spiegando che: “Siamo per natura fattuale e anagrafica dirette testimoni della tragedia che aveva segnato la famiglia Sesto/Scardamaglia. Ricordiamo l’affannosa ricerca di nostro padre nel voler ricostruire la storia del fratello morto a Dachau, anche con i pochi mezzi che a finire degli anni 50 e i primi anni ’60 possedeva; il suo sogno nel voler portare a casa quel che restava del fratello morto, sogno infranto dall’arrivo di una lettera che parlava di un nuovo inceneritore che dal ’44 aveva sostituito i forni crematori del campo di Dachau. Potenza della tecnologia nazista! Centinaia di corpi potevano essere bruciati in un sol colpo e come traccia solo polvere! Nostro padre seppe così, ufficialmente, nei primi anni 60, che di suo fratello “Luni” non restavano né ossa, né ceneri, ma solo polvere impalpabile tra quella di quasi tremila corpi, tanti sono stati inceneriti nel solo mese di gennaio del ’45. I racconti di nonna Carmina sulla partenza del figlio che come volontario finanziere cercava altrove il riscatto dalla povertà in cui versava la famiglia, per l’assenza di Nino, ancora prigioniero in Africa, e di Saverio, il marito, ricoverato a Girifalco come malato di mente dopo il rientro dall’America, dove da migrante muratore aveva cercato quel lavoro che avrebbe permesso a uno dei figli di diventare l’insegnante di tanti ragazzi di Limbadi. Lo sguardo di chiari occhi che dalle pareti sia della casa dei nonni che di quella di famiglia, segnavano la quotidianità prima della nostra infanzia e poi della nostra adolescenza. Un cappelletto di alpino in dotazione, ci diceva papà, ai finanzieri posti a guardia dei confini italiani, ci rendeva tangibile e più comprensibile cos’era stata e cosa potesse essere la guerra e la povertà. Gli abiti sempre neri indossati da nonna e da zia Rosina, ci ricordavano la tragedia e insieme ci accomunavano alle tante famiglie di Limbadi private dai loro cari, deceduti in guerra. Papà ci spiegava come i campi di concentramento raccontassero le storie di uomini, donne, ragazzi che spesso non ambivano a essere eroi, ma, come era successo a suo fratello, solo vivere come ogni essere umano dovrebbe, aldilà di ogni razza e ogni appartenenza: libero di guardare e costruire il proprio avvenire. Aver spezzato quella vita nei suoi progetti, nella sua quotidianità, nella normalità della sua esistenza, per noi libere di vivere la nostra, rendeva ancora più minacciose le scelleratezze della guerra e delle criminali ideologie naziste. Non serviva essere ebrei, o perseguitati politici o zingari o altro bastava solo essere umani o non desiderati. È da tutto ciò che nacque in noi quella che poi sarebbe diventata coscienza politica È stata questa la grande lezione di antifascismo che nostro padre, deceduto nel ’69, ci diede e che noi vogliamo qui ricordare anche come esempio in questi anni di scempi e di umanità rinnegate. In merito alla collocazione, pur comprendendo lo spirito con cui si sia scelto lo spazio scolastico, riteniamo che la “pietra d’inciampo” per sua natura e significato andava posta sul marciapiede dell’abitazione di via Piave 136 (oggi 106) e che, volendo, all’interno dell’edificio scolastico si poteva affiggere una targa evocativa. Ci perdoni, ma è il grande valore che rappresenta “l’inciampo” e la sua diversitàcon qualunque altra forma commemorativa. Pantaleone avrebbe fatto ritorno in un luogo a lui familiare, caro, in una strada che l’aveva visto giocare, sognare, partire insieme avremmo dato riscontro ai desideri di chi l’ha tanto amato e si sarebberidato uno statuto di cittadinanza visibile, condiviso e rinnovato nel tempo”.

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