“Canti di la terra mia”, la raccolta di liriche in dialetto del poeta vibonese Bruno Berlingieri
La recensione della raccolta di poesie scritte interamente in vernacolo edita da Libritalia Edizioni
Canti di la terra mia. È questo il titolo della recente pubblicazione del noto e affermato poeta vibonese Bruno Berlingieri “Una intensa “raccolta di liriche in vernacolo”, Libritalia Edizioni, caratterizzata – si legge nella recensione di Michele Petullà – da una struttura politematica, ovvero che tratta diversi temi, ma tutti legati all’uomo ed al suo essere nel mondo, con l’intento, da parte dell’autore, di cogliere e descrivere diversi aspetti della vita, “dai quali trarre insegnamento, esperienze da distribuire a chi è distratto o manca del sentimento di solidarietà con chi ha avuto meno degli altri”, come si legge nella Prefazione a firma dello scrittore Sharo Gambino. Una raccolta di poesie scritte interamente in vernacolo, dunque, dove la scelta della lingua usata – il dialetto, appunto – rappresenta per l’autore non un semplice divertissement letterario ma una scelta ponderata, pienamente consapevole, improntata a una sorta di intenzione che ha che fare con la responsabilità sociale, potremmo dire, perché “scrivere in dialetto oggi è importante”, come scrive Berlingieri nella sua nota introduttiva. Importante per “salvaguardare quel patrimonio culturale che ogni giorno viene aggredito da ogni parte nella sua identità storico-linguistica”. Dialetto, dunque, come difesa e salvaguardia della propria identità – storica, sociale, culturale – e delle proprie origini: l’identità e le origini di un popolo, perché “il dialetto è la lingua dei padri”. È stato detto da più studiosi che il dialetto è una lingua senza esercito, per significare il fatto che esso non ha un’organizzazione statuale, e dunque un esercito, e dunque una dignità nazionale, pur rimanendo sostanzialmente una lingua, sia pure locale. Il dialetto, o vernacolo che si voglia, è divenuto ormai uno strumento di comunicazione di minoranze, ed è parlato sempre meno dai giovani. Nonostante ciò, si nota un certo fiorire di raccolte di aneddoti, di aforismi dialettali o di proverbi e, soprattutto, di poesie: questo vuol dire che si sente la necessità di salvare ciò che sta scomparendo. Anche chi non parla il dialetto, dunque, – sembra essere anche l’ammonimento del poeta Berlingieri – dovrebbe conoscere e vivificare una tradizione sociale ben radicata nel nostro popolo – e in tutti i popoli –, legata ad usi e costumi secolari, a quella che lo storico francese Fernand Braudel ha definito la “cultura materiale”, intendendo con essa tutto il complesso di modi di vivere e di esprimersi quotidiano di un popolo, ovvero i loro riti e le loro usanze, i loro costumi ed il loro lavoro, i mestieri e gli strumenti utilizzati nella vita quotidiana: e tutto ciò è proprio quello che Berlingieri evoca nelle sue accorate liriche. Ecco perché oggi lo scrivere in dialetto (che è cosa molto più complessa del semplice parlarlo) è fare un’operazione storica, equivale a riscoprire le nostre origini: non solo la documentazione di un passato recente o remoto, ma la scoperta della propria identità, della propria specificità in un mondo sempre più globalizzato ed indistinto. Anche per questo aspetto – ma non solo per esso –, possiamo dire che la poesia di Berlingieri si caratterizza come poesia popolare, in quanto il dialetto rappresenta l’anima popolare della poesia, attraverso cui un popolo, una comunità, rivive. Una silloge poetica, Canti di la terra mia, dalla quale traspare la grande sensibilità umana dell’autore, il quale non manca di sottolineare, con particolare e intenso pathos, valori universali della vita, che tutti gli uomini dovrebbero praticare. Una silloge, dunque, che si caratterizza positivamente anche dal punto di vista etico, per il suo contenuto valoriale oltre che tematico. Indaga la realtà in cui vive, in cui è immerso, Berlingieri, coglie gli aspetti della vita quotidiana, da cui trarre insegnamento: da questo punto di vista, le sue liriche sono abilmente intessute di una saggezza antica, che proviene dalla conoscenza del mondo, dall’esperienza, dall’età matura. Una saggezza che esalta la dignità umana, la vita dedicata alla famiglia, al lavoro, ai buoni sentimenti, passando per sacrifici che forgiano il carattere e fanno capire il vero valore delle cose, l’importanza di relazioni sociali e interpersonali eticamente fondate, che abbiano come presupposto il rispetto, la lealtà, la solidarietà, la fratellanza. Dalla poetica di Berlingieri emerge una grande sensibilità verso le vicende umane e sociali, una caratteristica, questa, che è propria del neorealismo: da questo punto di vista, non sembra arduo accostare, per certi aspetti, la poetica di Berlingieri alla poetica di Franco Costabile – il poeta lametino di cui il prossimo anno si celebra il Centenario della nascita –, che è unanimemente considerato uno dei massimi esponenti del neorealismo calabrese, e non solo. Come Costabile, infatti, anche Berlingieri parla nelle sue poesie della sua terra, la sua Calabria, e ne parla con tono nostalgico e malinconico: il destino della Calabria, il dramma dell’emigrazione – per chi parte e per chi resta –, la nostalgia verso un passato ormai perso, che non tornerà più, come “I misteri di na vota”; la nostalgia verso la sua terra, terra di “miseria” che sta “morendo”; una “terra amara”, “scunzulata du destinu” (Cantu di l’emigranti), “Terra assitata di paci e di lavuru / comu sarda salata ammazzata”, che costringe i suoi giovani ad emigrare “pe lavurari”, in cerca altrove di miglior fortuna. Una terra, la sua Calabria, che l’autore canta ed esalta in tutte le sue bellezze, un canto da cui traspare un attaccamento e un amore viscerale (Cantu pe la terra mia): un amore che ha il colore delle stagioni, il profumo dei fiori, la bellezza del mare; una terra amata col cuore eppur rimproverata per quello non ha saputo dare. Una poetica, quella di Berlingieri, che si fa anche poesia sociale, di denuncia dei mali sociali, che trova la sua sublimazione nell’accorata preghiera al Signore, affinché ponga rimedio ad essi, “mu cangia chista terra; mu veni l’ura” (Lamentu), perché “ncè cu prega sempri lu Signuri” (Littara o Signuri). Una caratteristica, questa, che ha indotto Sharo Gambino ad accostare il poeta Berlingieri allo “scalpellino Mastru Bruno Pelaggi”, maestro della poesia di “denuncia dei mali sociali”. Una poetica che coniuga abilmente la denuncia sociale con il senso fortissimo di sradicamento che i calabresi di ogni tempo sperimentano lontano dalla loro terra. Una poetica nella quale la Calabria è percepita dal poeta sia come madre sia come matrigna, poiché al contempo insegna i valori autentici della vita ma costringe tanti suoi figli a fuggire da essa per poter vivere dignitosamente. Una poetica che caratterizza, in certo modo, il suo autore quale “custode” delle sofferenze della Calabria. Per concludere, Canti di la terra mia rappresenta un’intensa espressione poetica, eticamente connotata, animata da liriche intrise di una profonda sensibilità umana; un profondo senso di malinconia pervade la silloge, a cui fa da contrappunto un acuto spirito indagatore, del quale l’autore si serve per scandagliare la società in cui, suo malgrado, è immerso. Il verso sciolto, vivificato da un lessico semplice ed essenziale, giunge direttamente al cuore del lettore, il quale ne viene emotivamente coinvolto e avvolto dalla grande musicalità che si respira leggendo le sue liriche.
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