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‘Ndrangheta: omicidio del boss del Poro e ferimento di Francesco Mancuso, chiesti tre ergastoli

Requisitoria della Dda di Catanzaro dinanzi alla Corte d’Assise. Il fatto di sangue la notte del 9 luglio 2003 a Spilinga

‘Ndrangheta: omicidio del boss del Poro e ferimento di Francesco Mancuso, chiesti tre ergastoli
La strada a Spilinga dove è avvenuto l'agguato e nei riquadri Francesco Mancuso e Raffaele Fiamingo
Cosmo Michele Mancuso

Requisitoria e richieste di pena finali dinanzi alla Corte d’Assise di Catanzaro (presieduta dal giudice Bravin) per gli imputati del processo che mira ad accertare le responsabilità per l’omicidio di Raffaele Fiamingo e il tentato omicidio del Francesco Mancuso, detto “Tabacco”. Fatti di sangue avvenuti nella notte del 9 luglio 2003 a Spilinga. La Dda di Catanzaro ha in particolare chiesto la condanna all’ergastolo (con isolamento diurno per 18 mesi) per il boss di Limbadi Cosmo Michele Mancuso, 74 anni, di Limbadi (avvocati Guido Contestabile e Antonio Corsaro), per Antonio Prenesti, 57 anni, di Nicotera (avvocati Francesco Sabatino e Salvatore Staiano), Domenico Polito, 59 anni, di Tropea (avvocati Enzo Galeota e Domenico Soranna).
L’operazione “Errore Fatale” è stata portata a termine dalla Squadra Mobile di Vibo Valentia e dallo Sco, con il coordinamento della Dda di Catanzaro. Nell’ambito dell’inchiesta, Emanuele Mancuso (figlio di Pantaloene Mancuso, alias “l’Ingegnere”) ha poi confermato agli inquirenti il fatto che lo zio Francesco Mancuso, alias “Tabacco”, non andasse d’accordo con gli zii, tanto da creare nei primi anni 2000 un’autonoma articolazione del clan Mancuso impegnata anche in danneggiamenti nei confronti di soggetti già “protetti” dagli zii oppure a compiere azioni intimidatorie nei confronti degli stessi congiunti, prendendo in particolare di mira lo zio Cosmo Michele Mancuso e Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”. Francesco Mancuso, di Limbadi, sarebbe inoltre andato a chiedere, unitamente a Raffaele Fiamingo (alias “Il Vichingo”) di Rombiolo, la tangente ad un panificio di Spilinga di proprietà di un congiunto di Antonio Prenesti. [Continua in basso]

I propositi di vendetta 

Domenico Polito
Antonio Prenesti

Le dichiarazioni più interessanti sulle fasi immediatamente successive all’omicidio di Raffaele Fiamingo ed al ferimento di Francesco Mancuso, arrivano tuttavia dal collaboratore Angiolino Servello di Ionadi il quale all’epoca era uno stretto alleato del boss di Zungri, Giuseppe Accorinti, nel traffico di droga. Proprio da Giuseppe Accorinti, Angiolino Servello ha raccontato infatti di aver appreso che per il fatto di sangue c’era all’epoca chi stava preparando la vendetta: un personaggio di primo piano della famiglia Mancuso, ovvero Pino Mancuso (cl. ’60), detto “Pino Bandera”, fratello maggiore di Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, e fra i principali protagonisti dell’inchiesta “Decollo” contro il narcotraffico internazionale.

Pino Bandera era all’epoca inserito, secondo i collaboratori e le risultanze investigative, proprio nell’articolazione guidata dal cugino Francesco Mancuso, detto “Tabacco” (Pino Mancuso assolto però in appello nel processo Dinasty), e quindi anche in netta contrapposizione al proprio fratello Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”, collocato invece nell’articolazione del clan facente capo allo zio Cosmo Michele Mancuso. Pino Mancuso, secondo Servello, avrebbe voluto colpire Domenico Polito di Tropea, individuato come bersaglio proprio perché ritenuto facente parte del gruppo di fuoco che aveva agito sotto le direttive di Cosmo Michele Mancuso.
Secondo Emanuele Mancuso, infine, anche suo zio Francesco Mancuso in un’occasione gli avrebbe chiesto delle armi per vendicarsi dell’agguato subito. “Quel gran cornuto di Yo-yò è tornato a Nicotera” avrebbe confidato Francesco Mancuso al nipote Emanuele, manifestando così l’intenzione di colpire proprio Antonio Prenesti. Un proposito poi non andato a buon fine, anche perché nel frattempo – ottobre 2003 – scattava l’operazione “Dinasty” proprio contro il clan Mancuso e Ciccio Tabacco veniva arrestato insieme a tutti gli altri vertici della famiglia.

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