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La discendenza degli Zupo: il locale di San Giovanni di Mileto in una storica informativa del Ros

L’élite investigativa dei carabinieri la consegnò nel 1998. Le rivelazioni del pentito Michele Iannello: la storia del boss che abdicò in cambio della vita, il potere dei Mancuso, i capi di ieri sono quelli di oggi. Ciò che è cambiato e cosa è rimasto dopo un quarto di secolo

La discendenza degli Zupo: il locale di San Giovanni di Mileto in una storica informativa del Ros

L’effige di un giovanissimo Pasquale Bonavota, accanto ai dati anagrafici riportati al numero 11 dell’epigrafe, attribuisce ulteriore valenza storica a quel documento che i carabinieri del Ros, il 10 giugno 1998, inoltrarono alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Ben 117 nomi, 137 capi di imputazione: era l’informativa denominata “Alba”, che per la prima volta delineava vecchi e nuovi assetti della ‘ndrangheta nella provincia di Vibo Valentia, sulla scorta delle dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria dal primo pentito di peso tra i suoi ranghi: Michele Iannello, «sgarrista» miletese e assassino – riconosciuto tale con sentenza definitiva – del piccolo Nicholas Green. [Continua in basso]

Uno spaccato ancora attuale

Pasquale Bonavota, oggi il latitante di ‘ndrangheta più ricercato, aveva solo 24 anni. Emergente, allora, in uno scenario che nell’anno del Signore 2023, un quarto di secolo dopo, conserva la sua straordinaria attualità, nonostante gli sconvolgimenti determinati da vecchie e grandi operazioni, da guerre di mafia, dalla gemmazione di nuove spregiudicate leve. L’incipit del Ros – in quella comunicazione di notizie di reato che ricostruiva un nugolo di agguati, omicidi e tentati omicidi – è eloquente: «Per una corretta esposizione delle dinamiche criminali del Locale di Limbadi, attualmente retto da Mancuso Luigi, non si può prescindere dall’analisi di alcuni fatti che, sebbene endogeni alle singole ’ndrine dipendenti, hanno contribuito ad accrescere le potenzialità della cosca Mancuso che, in una progressione temporale ultra ventennale, oltre ad acquisire l’egemonia territoriale in tutta l’area vibonese, ha ulteriormente rafforzato i rapporti ed i collegamenti con altre similari organizzazioni della Calabria, assurgendo in tal modo ad una delle più agguerrite associazioni mafiose operanti nel territorio calabrese, le cui diramazioni tumorali sono state processualmente accertate anche in altri contesti territoriali nazionali».

Il locale di San Giovanni

Il passato che ritorna nel presente: ciò che resta di allora e l’eredità di ciò che è stato. I Mancuso, i Bonavota, ma anche le ‘ndrine di Francica, Zungri, Filadelfia, Stefanaconi, Cessaniti, San Gregorio d’Ippona, Gerocarne, Filandari e, soprattutto, di Mileto, nelle frazioni San Giovanni, Comparni e Paravati, teatro delle più efferate gesta criminali dello stesso Michele Iannello. È qui che il pentito, deponendo fin dal 1996 davanti all’autorità giudiziaria, svelò – ad esempio – come portasse in “copiata” (quella sorta di codice genetico attribuito al battezzato al momento del rito dell’affiliazione e del conferimento delle “doti”), tra gli altri, il nome di Enrico Zupo.

Un cognome che da allora sparì dai radar degli inquirenti antimafia, salvo ritornarvi nel nuovo millennio, grazie ad una nuova generazione. Iannello chiamava in causa due Enrico Zupo, cugini omonimi, uno classe 1953, l’altro 1949. Il primo era colui che presenziò al suo battesimo nella «onorata società» e allora era il «capo – disse il 28 maggio del 1997 – del locale formalmente riconosciuto secondo le regole della ‘ndrangheta» di San Giovanni di Mileto. Il secondo, benché noto alla giustizia per una serie di denunce relative a reati contro il patrimonio e la persona, avrebbe avuto, nell’organizzazione allora investigata, un profilo decisamente minore, che poi sfumò nell’evoluzione dei successivi procedimenti antimafia, dai quali uscì senza conseguenze giudiziarie. Furono però i suoi eredi a proiettare il nome degli Zupo nel futuro degli assetti criminali vibonesi.

Gli Zupo di oggi

Sposo di Maria Emanuele, a sua volta legata da vincoli familiari agli Emanuele che tra le Serre e le Preserre avrebbero imposto negli anni successivi il loro potere, Enrico Zupo classe 1949 è il padre di Antonino Zupo (che – quando fu assassinato a Gerocarne, il 22 settembre 2012, a soli 31 anni – venne ritenuto dagli inquirenti come una sorta di luogotenente degli Emanuele, in faida con i Loielo, e già disarticolati da diverse grandi operazioni di polizia) e di Gaetano Zupo (già imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott e recentemente arrestato dai carabinieri per aver tentato di imporre il pizzo ad un’impresa, proprio nella frazione San Giovanni di Mileto, rivendicandone il controllo). È proprio Gaetano, la cui posizione è al vaglio tanto dei magistrati di Catanzaro quanto di Vibo Valentia, a riportare in auge il nome degli Zupo in territorio miletese, dopo più di un quarto di secolo, risalendo fino ad un’epoca nella quale il più blasonato biscugino – se il racconto di Michele Iannello risponde a verità – si sarebbe reso protagonista di una scelta, insolita e per certi aspetti rivoluzionaria visti i tempi ed il clima che si respirava nel Vibonese durante gli anni ’80. [Continua in basso]

Le estorsioni sull’arcivescovato

Mileto vista dall’alto

Il pentito svelò che Enrico Zupo (’53) avrebbe barattato il suo silenzio e l’abdicazione dal comando con la sopravvivenza. «Zupo Enrico entra in contrasto con i Mancuso – disse Iannello – in particolare con Peppe Mancuso, tale dissidio ha origine dal fatto che Zupo Enrico prese autonoma iniziativa nella gestione delle estorsioni sui lavori, se non erro, di ristrutturazione dell’arcivescovato di Mileto». I contrasti con il mammasantissima di Limbadi e con i suoi accoliti nei territori di San Costantino e Francica, si sarebbero acuiti fino a che Peppe Mancuso decise di eliminarlo (ma ciò non ebbe mai conferma giudiziaria). Era il 5 aprile 1983, località Calata del prete a Barbasano di Candidoni, Enrico Zupo rientrava da Rosarno, in compagnia del cognato, Francesco Mazzeo. I due furono bersagliati a colpi di pistola. Mazzeo – secondo la ricostruzione dei carabinieri e del medico legale – sarebbe stato finito e sfigurato a colpi di cric. Credendo Zupo invece già morto, gli attentatori si allontanarono.

L’agguato del 1983

Soccorso e poi condotto in ospedale, l’allora presunto capobastone di Mileto si riprese e a Iannello avrebbe raccontato la dinamica dell’agguato. Raccontò il pentito: «Mi ha riferito lo Zupo che mentre viaggiavano con la loro autovettura lunga la strada predetta incontrarono Peppe Mancuso con un’altra persona lì ferme presso una loro autovettura che simulavano di cambiare una ruota. Naturalmente loro non sapevano che il Mancuso e l’altro stavano simulando e quindi si fermarono per prestare aiuto alchè Peppe Mancuso tirò fuori una pistola cominciò a sparare al loro indirizzo. Devo precisare che lo Zupo e suo cognato erano ancora a bordo della loro autovettura Giulietta allorquando furono esplosi i colpi di pistola. I due tentarono di allontanarsi ma lo Zupo, che era alla guida era stato fortemente ferito sia al volto che alle spalle, non riuscì a controllare la guida e quindi l’autovettura si fermò più avanti.
Devo evidenziare che la molla della pistola adoperata da Peppe Mancuso improvvisamente si spezzò saltando fuori dall’arma; i due killers si avvicinarono all’autovettura Giulietta, videro lo Zupo che grondava sangue dalla bocca ed al volto e lo pensarono morto, mentre ancora vivo era il Mazzeo che fu pertanto finito a colpi di cric e il suo cadavere trascinato via dall’autovettura e abbandonato tra gli ulivi».

L’abdicazione in cambio della vita

Iannello riferì anche gli accadimenti successivi: «Lo Zupo si salvò, riuscendo ad allontanarsi dalla Giulietta e quindi raggiungendo la più vicina fattoria… Riuscì ad avere salva la vita dai Mancuso promettendo loro di tacere sui responsabili del sanguinoso agguato, nonché lasciando il posto di “capo società” di San Giovanni di Mileto, che fu poi raccolto da Prostamo Giuseppe allorquando questi uscì dal carcere dopo aver scontato quindici anni di reclusione circa, essendo entrato in carcere allorquando fu arrestato per una rapina ad un treno in concorso con Franco Perna ed avendo poi commesso altri reati in carcere». Questa fase storica coincise con l’inizio della faida che vide contrapposti i Pititto-Prostamo-Iannello ai Galati. «Prostamo Giuseppe e Zupo Enrico, agli inizi della faida contro il gruppo Galati – scrissero i carabinieri del Ros – lasciarono la Calabria, per emigrare, rispettivamente, il primo a Savona ed il secondo in Belgio».

Da ieri a oggi

Furono i Pititto-Prostamo-Iannello a vincere la guerra, fomentati e sostenuti dai Mancuso. Le successive carcerazioni, però, fiaccarono negli anni la loro influenza. Giuseppe Prostamo venne poi assassinato, da un killer del clan Fiarè di San Gregorio d’Ippona, nel giugno del 2011. Il fratello Nazzareno sarebbe finito invece all’ergastolo, per l’omicidio di Pietro Cosimo consumato a Catanzaro il 17 gennaio del 1990; Pasquale Pititto, capo dell’omonimo gruppo e suo concorrente nell’omicidio, rimasto semiparalizzato dopo un agguato e già condannato al fine pena mai, nonostante il suo coinvolgimento in altre vicende giudiziarie, ha ottenuto invece il beneficio dei domiciliari nel 2022. Ulteriori operazioni antimafia e antidroga, da ultimo Miletos e Stammer, hanno «derattizzato» – procuratore Nicola Gratteri docet – il territorio, generando un vuoto di potere mafioso, laddove il passato è sempre pronto a ritornare.

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