Omicidio Fiorillo a Vibo-Pizzo: i motivi della Cassazione alla base della condanna di Zuliani
Il delitto il 15 dicembre 2015 nel territorio della frazione Longobardi in una zona non lontana dalla stazione ferroviaria. Decisive le indagini della Squadra Mobile e la prova del Dna
Depositate dalla prima sezione penale della Cassazione le motivazioni della sentenza con la quale il 3 maggio scorso Antonio Zuliani, 30 anni, di Piscopio, è stato condannato alla pena definitiva di 14 anni di reclusione poiché ritenuto responsabile dell’omicidio volontario ai danni dell’allora 45enne Francesco Fiorillo, ucciso a colpi di pistola in una zona non lontana dalla stazione ferroviaria di Vibo-Pizzo.
Secondo la concorde ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, l’omicidio si è consumato nella frazione Longobardi di Vibo Valentia tra le ore 20.58 e le ore 21.28 del 15 dicembre 2015, quando Francesco Fiorillo è rimasto vittima di un agguato tesogli da almeno due persone le quali, dopo averlo atteso nascoste nella vegetazione presente davanti all’ingresso del suo podere, hanno esploso contro di lui più colpi di arma da fuoco, attingendolo frontalmente mentre ancora si trovava a bordo della propria auto nell’atto di scendere. Il cadavere è stato rinvenuto il giorno successivo dal nipote della vittima, accorso sul luogo per sincerarsi delle condizioni del congiunto che, a detta di sua madre, sorella di Francesco Fiorillo, non rispondeva più al telefono. Sul posto sono stati repertati due bossoli 380 e quattro bossoli calibro 7,65. Un paio di guanti in lattice di colore nero sono stati trovati, all’interno di una busta in cellophane, lungo la via di fuga utilizzata dai killer; uno dei guanti presentava il dito indice tagliato, verosimilmente per l’azionamento del grilletto. Le analisi eseguite dalla Polizia scientifica hanno accertato la presenza sul reperto di otto particelle ternarie, indicative dell’esplosione di colpi di arma da fuoco, e di una traccia biologica corrispondente ad un singolo individuo di sesso maschile. [Continua in basso]
I giudici della Cassazione spiegano quindi che “non essendo approdate ad alcun esito le indagini orientate, in prima battuta, nell’ambito della prostituzione omosessuale minorile per le acclarate frequentazioni di Francesco Fiorillo con giovani del luogo, anche minorenni, così come nessun significativo risultato era sortito da investigazioni dirette al settore del narcotraffico, si è provveduto a comparare il Dna estrapolato dalla traccia biologica rilevata su uno dei guanti in lattice con il profilo di Antonio Zuliani, nel frattempo acquisito dalla Polizia scientifica in quanto emerso nel corso di altre indagini relative ad una rapina commessa a Vibo Valentia: dal confronto si è ottenuto un match positivo”.
Si è poi proceduto allo sviluppo del traffico telefonico interessante la cella di copertura del luogo del delitto e, emersi gli strettissimi rapporti intercorrenti tra Antonio Zuliani e Arcangelo Michele D’Angelo, proprietario di un’autovettura Peugeot 206 munita di dispositivo satellitare spesso prestata a Zuliani, è stato effettuato il monitoraggio degli spostamenti del veicolo nel periodo d’interesse. Si è così accertato che il cellulare dell’imputato aveva agganciato la cella radio base posta a copertura del luogo del delitto in orario con esso compatibile; che la vettura Peugeot 206 il giorno dell’omicidio era transitata più volte nei pressi dell’abitazione della vittima, percorrendo la SS 18 e che, cinque giorni prima, il 10 dicembre, aveva effettuato una sosta, tra le ore 9.43 e le ore 9.50 nelle immediate vicinanze, facendo pensare a un sopralluogo preliminare. Sulla base del descritto compendio probatorio, il 23 marzo 2018, è stata emessa, nei confronti di Antonio Zuliani un’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere.
Le giustificazioni di Zuliani
Otto mesi dopo, il 14 novembre 2018, Antonio Zuliani chiedeva di rendere dichiarazioni, affermando che gli autori dell’omicidio erano “Arcangelo Michele D’Angelo e Saverio Ramondino, soggetti che egli in quel periodo frequentava abitualmente”, indicando una ragazza come persona informata su episodi collegati al delitto. In quel primo interrogatorio, Zuliani riferiva: di essersi rifiutato di partecipare all’omicidio per come richiestogli da D’Angelo, che, perciò, si era rivolto a Ramondino; di avere, tuttavia, partecipato alle prove di sparo, con D’Angelo, Ramondino e la ragazza il giorno prima del delitto, in località Santa Ruba; di essersi incontrato con i tre, la sera del delitto, all’interno della frazione Piscopio e di essersi allontanato a bordo della Peugeot 206, insieme alla ragazza, alle ore 20,30 circa, verso Pizzo e Vibo Marina, mentre D’Angelo e Ramondino, a bordo della Fiat Punto rossa della donna, si erano diretti verso il luogo dell’omicidio; di essere stato, più tardi, informato da D’Angelo che era stato fatto quello che era in programma.
Su richiesta degli inquirenti, Zuliani rendeva, in seguito, un secondo interrogatorio, posticipando la prova di sparo al pomeriggio del giorno del delitto e aggiungendo di aver accompagnato D’Angelo, dopo il fatto, a Roma per due giorni. [Continua in basso]
Il ragionamento dei giudici
Per i giudici di merito, ma anche per la Cassazione, la tesi difensiva, basata sulla versione resa dallo secondo la quale, per la sua mancata partecipazione al delitto, egli sarebbe stato “punito” dai correi, che avrebbero, di proposito, lasciato nei pressi del luogo dell’omicidio i guanti da lui adoperati nelle prove di sparo, “con il suo Dna, non si appalesa convincente, secondo i giudici del gravame, né dal punto di vista logico, né da quello fattuale”.
Non da quello logico, poiché “non avrebbe avuto senso per D’Angelo e Ramondino lasciare come traccia indiziante i guanti con il Dna dell’imputato sapendo così di esporsi al rischio di essere a loro volta accusati da Zuliani – come puntualmente avvenuto – o, comunque, di permettere agli inquirenti di risalire a loro, atteso lo stretto rapporto di frequentazione dei due con Zuliani medesimo”. Dal punto di vista fattuale, l’accusato aveva invece tenuto un comportamento, durante e dopo il delitto, “del tutto incompatibile con il suo presunto intento di tirarsi fuori dalla compartecipazione al fatto, in quanto aveva continuato ad accettare la compagnia degli amici anche dopo il suo rifiuto di commettere l’omicidio e si era mostrato pronto ad accompagnare D’Angelo il giorno successivo a Roma, per un allontanamento chiaramente volto a sottrarsi alle ricerche o, quanto meno, a tenere distanti i sospetti”.
I dati che smentiscono Zuliani
Per i giudici “manca inoltre qualsiasi indicazione che permettesse di verificare la presenza dei due presso il bed & breakfast di piazza Bologna a Roma ed anzi, i dati estrapolati dai tabulati telefonici smentiscono la versione dei fatti resa da Zuliani sul viaggio in questione. In particolare, i due sembrava avessero viaggiato insieme sino a Salerno, ma a Roma risultava essersi recato solo Zuliani, e per un solo pernottamento, poiché D’Angelo, il giorno dopo (16 dicembre), in mattinata, si trovava già a Vibo Valentia. Era, poi, del tutto assurdo che, dopo essere stato – a suo dire – in compagnia di D’Angelo per tutto il viaggio, e per due giorni successivi, Zuliani non avesse parlato con l’amico dei motivi per cui si era deciso di eliminare Fiorillo, mentre gli sarebbero stati rivelati particolari dettagliati e rilevanti come il punto in cui erano state occultate le armi. Era parimenti inverosimile che Zuliani, pur sapendo che di lì a poco – dopo la prova di sparo – sarebbe stato compiuto il delitto, avesse continuato ad aggirarsi sui luoghi, con il rischio di essere osservato e coinvolto in un omicidio, al quale egli stesso si era rifiutato di partecipare. Eppure, alle ore 20.58 del giorno dell’omicidio, la stessa cella telefonica agganciata dalla vittima era agganciata dall’imputato, il quale, pertanto, si trovava nei pressi del luogo del delitto”.
Da tali elementi è stata fondata la responsabilità penale di Antonio Zuliani per l’omicidio di Francesco Fiorillo che si è poi dato alla fuga perdendo i guanti lungo il percorso prima di mettersi in auto e liberarsi delle armi. [Continua in basso]
Per la Cassazione, anche i due amici di Piscopio indicati da Zuliani per confermare la presenza della ragazza al suo fianco il 15 dicembre 2015 (ragazza che ha smentito il racconto di Zuliani), “sottoposti a intercettazione ambientale quattro giorni dopo l’arresto dell’imputato, mostravano di non nutrire dubbio alcuno sulla colpevolezza dell’amico, che ritenevano avesse commesso una imperdonabile ingenuità nell’abbandonare i guanti in lattice a poca distanza dal luogo del delitto (nella conversazione del 27 marzo 2018, ore 18.59: “Quei guanti lo hanno rovinato, quei guanti lo hanno rovinato!”).
Quanto al trattamento sanzionatorio – 14 anni, pena scontata di un terzo per la scelta del rito abbreviato – i giudici hanno reputato congrua la pena inflitta dal primo giudice (gip del Tribunale di Vibo), tenuto conto “dell’intensità del dolo e delle modalità attuative del reato, oltre che della pessima condotta di vita dell’imputato, dedito allo spaccio di stupefacenti, privo di stabile occupazione e gravato da precedenti penali”. Da qui il rigetto del ricorso di Antonio Zuliani.
L’indagine – coordinata dal pm della Procura di Vibo Concettina Iannazzo – è stata condotta sul campo dalla Squadra Mobile di Vibo, diretta all’epoca da Giorgio Grasso e Cristian Maffongelli, con il supporto dello Sco di Roma e il servizio di polizia scientifica. Si scava ancora alla ricerca del movente del fatto di sangue.
Da ricordare, infine, che il 30 settembre dello scorso anno, la Corte d’Assise d’Appello in altro separato processo ha assolto Arcangelo Michele D’Angelo, 32 anni, di Piscopio e Saverio Ramondino, 29 anni, di Vibo Valentia, dall’accusa di aver preso parte all’omicidio di Francesco Fiorillo. In primo grado erano stati condannati a 16 anni di reclusione a testa con rito abbreviato dal gup del Tribunale di Vibo.
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