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La strage dei Valdesi di Calabria: lo sterminio dimenticato

Nel 1561 le comunità evangeliche residenti nel Cosentino furono colpite da una sanguinosa repressione. Fu la “notte di San Bartolomeo italiana”: oltre 2000 seguaci di Valdo furono massacrati in nome dell’intolleranza religiosa. 

La strage dei Valdesi di Calabria: lo sterminio dimenticato

E’ tempo di dichiarazione dei redditi e, quando si arriva alla scelta dell’otto per mille, fra le varie opzioni appare la Chiesa evangelica Valdese. Forse non sono in molti a conoscere questo ente religioso, ma ancora di meno sono forse coloro che conoscono il legame che unisce i Valdesi alla Calabria.

Leggendo le pagine preziose della nostra storia, si scopre che nel 1561 in Calabria avvenne un assassinio di massa, un’efferata shoah, una strage spietata per le modalità di soppressione di una popolazione ritenuta eretica.

Ma chi erano i Valdesi e perché, secondo le parole dello storico Salvatore Capalbo, il loro sterminio può essere considerato la “notte di San Bartolomeo” italiana?

Le origini di questi nuclei risalgono ad immigrazioni verificatesi, a scaglioni diversi, a cavallo del secolo XIV. Provenivano dal Piemonte, dalle valli abitate dai seguaci della chiesa creata da Pietro Valdo ed erano formati da umile gente, soprattutto da contadini. Persecuzioni religiose spinsero questi valdesi ad abbandonare la loro terra e a raggiungere l’estrema regione d’Italia. Fermatisi nelle vallate che dal litorale tra Fuscaldo e Cetraro s’incuneano nell’interno, toccando le propaggini meridionali dell’altopiano della Sila, essi vi si stanziarono.

Entro le suddette vallate i coloni valdesi della Calabria, dediti al lavoro, frugali e pacifici, rimasero sconosciuti o quasi. Il governo spagnolo di Napoli li conosceva come “ultramontani”; altri ancora, più ignari della loro provenienza, li ritenevano di origine albanese.

Mantenendosi ligi ai baroni a cui erano sottoposti, i Valdesi poterono conservarsi fedeli alle loro credenze religiose e tramandarle tranquillamente di generazione in generazione. Quand’ecco esplodere e diffondersi nel cuore dell’Europa la rivoluzione protestante. Le idee di Lutero e Calvino, che accesero lotte accanite in non pochi paesi, non tardarono ad arrivare in Italia.

Con il generale risveglio del sentimento religioso, le diaspore valdesi in Calabria, come se lo spirito di quel momento storico le avesse investite, si destarono pure esse. I valdesi del Piemonte inviarono in mezzo a loro due ministri affinché rinfocolassero in essi la fede di Pietro Valdo. Ciò avvenne nel 1558: era una decisione non solo tardiva, ma anche incauta. Pontificava in quegli anni il rigidissimo Paolo IV; non meno intransigenti di lui erano le autorità civili napoletane; l’Inquisizione romana sorvegliava severamente.

Il primo dei due ministri che giunse in Calabria fu Giacomo Bonello, il quale finì nel 1560 vittima dell’Inquisizione di Palermo, che lo mandò al rogo. Da quel momento, i calabro-valdesi si vennero infervorando, divennero inquieti e irrequieti, allacciarono relazioni con i loro confratelli del Piemonte e con lo stesso Calvino, che inviò in Calabria Giovan Luigi Pascale, un giovane nativo di Como, animato da uno schietto misticismo che lo faceva aspirare al martirio come a suprema e sublime meta. La sua parola affascinante infiammò vieppiù i valdesi della Calabria, ma al tempo stesso suscitò la reazione delle popolazioni che volevano restare fedeli alla religione dei loro padri.

Infatti, ridestatasi la passione religiosa anche nel campo opposto, si lamentarono episodi incresciosi che fecero temere il degenerare di quelle divisioni in disordini civili, di cui era piena in Europa la cronaca di quei torbidi tempi. La Santa Sede aveva già rivolto la sua attenzione sulla vita religiosa della Calabria e, nell’estate del 1561, i primi gesuiti arrivarono come missionari proprio nelle valli abitate dai valdesi. Il feudatario Salvatore Spinelli ordinò l’arresto del pastore valdese Gian Luigi Pascale a Fuscaldo: per questa azione Spinelli ottenne in seguito il titolo di marchese. Pascale fu condotto a Cosenza, da qui a piedi a Napoli ed infine a Roma con il tentativo di farlo abiurare, ma invano. Pascale fu impiccato e poi bruciato a ponte Sant’Angelo il 16 settembre 1560.

La stessa tremenda sorte, come si è detto, era capitata al confratello Giacomo Bonello che, dopo un breve processo, fu arso vivo in piazza dell’Ucciardone a Palermo. I Valdesi calabri caddero preda degli inquisitori che vennero alla conclusione che erano tutti eretici e che quindi dovevano o abiurare o morire. Ma anche quelli che abiuravano erano costretti a sopportare un severo e umiliante regime di controllo: non potevano parlare in occitano o sposarsi tra loro, dovevano andare a messa tutti i giorni e indossare l’infamante “abitello” giallo con croce rossa, imposto agli eretici (ricorda la stella di David degli ebrei).

I Valdesi reagirono con la fuga, ma questo diede il pretesto al viceré di Napoli di organizzare, nel giugno 1561, una colossale caccia all’uomo, usando cani mastini, assoldando delinquenti comuni come soldati e mettendo taglie sulle teste dei valdesi fuggiti. Pertanto, l’accusa di “peccato in moltitudine” giustificava l’intervento armato (“pocho rimedio credo si possi fare… se non l’esterminio”).

Fu la “notte di San Bartolomeo” italiana: 60 persone furono uccise a S. Sisto ed il paese distrutto, mentre a Montalto, l’11 giugno 1561 fu atrocemente tagliata la gola, uno dopo l’altro, a 80 valdesi, che vennero lasciati dissanguare come agnelli sgozzati; i loro cadaveri furono poi impalati, come monito, sulla strada per Cosenza.

Ma la strage più impressionante avvenne a Guardia Piemontese (allora La Guardia): per undici giorni si calcola che oltre 2000 persone furono barbaramente trucidate. Il sangue di quei poveri innocenti colò lungo i vicoli fino alla porta principale del paese e alla piazza antistante, denominate in seguito “Porta del Sangue” e “ Piazza della Strage”. Eroico fu l’atteggiamento di tanti infelici dinanzi alla morte e ai supplizi.

L’eco dello sterminio dei valdesi di Calabria non tardò a diffondersi in Europa, suscitando ovunque orrore e veementi censure da parte del mondo protestante internazionale all’indirizzo di Filippo II, come se egli lo avesse, direttamente o indirettamente, autorizzato. L’eco della “crociata” contro i valdesi della Calabria non si spense, tanto che, quando nel 1572 si ebbe la famosa “notte di San Bartolomeo”, alcuni fantasticarono che quella calabrese fosse stata una lugubre anticipazione di questa.

Anche nel mondo cattolico l’eccidio suscitò voci di deplorazione. Pio IV sollecitò l’arcivescovo di Reggio a raggiungere rapidamente i luoghi della tragedia per frenare la spietata repressione. Si temeva, infatti, che venissero sacrificati anche altri 1500 valdesi. I superstiti furono sottratti alla morte e molto, in questa opera di salvataggio, valsero la prudenza e la pietà dell’arcivescovo di Reggio, il quale, essendo nato a Rogliano, a non lunga distanza da Montalto, conosceva di quelle contrade uomini e cose.

Nel 1569 i calabro-valdesi erano ormai stati “convertiti” al cattolicesimo e quindi assimilati, sul piano religioso, alla rimanente popolazione della contrada. Pur scomparendo la differenza religiosa grazie alle massicce conversioni, rimase comunque l’orgoglio di usare la lingua franco-provenzale, abitudine tramandata fino ai nostri giorni. La storia della presenza valdese in Calabria viene dunque ad intrecciarsi con temi ancora attuali ed irrisolti: le migrazioni, la convivenza con le minoranze, la repressione della dissidenza, il diritto di resistenza.

Riportare alla memoria i fatti narrati può rappresentare un contributo per superare una dimensione localistica di questa storia e riconoscere il contributo della minoranza valdese allo sviluppo culturale della nostra regione.

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