Usura aggravata dal metodo mafioso: tre assoluzioni a Vibo
Non reggono le accuse nate dalle dichiarazioni della testimone di giustizia Ewelyna Pytlarz, moglie di Domenico Mancuso. Restituita la somma di 85mila euro sequestrata a Limbadi in casa di Giulia Tripodi
Assolti per non aver commesso il fatto. Questa la sentenza del Tribunale collegiale di Vibo Valentia, presieduto dal giudice Tiziana Macrì, nei confronti di Giulia Tripodi, 83 anni, di Limbadi, Roberto Cuturello, 55 anni, di Nicotera, Antonio Agostino, 64 anni, anche lui di Nicotera.
L’accusa di usura – aggravata dal metodo mafioso – veniva mossa a Giulia Tripodi (madre dei boss Giuseppe Mancuso, detto “Pino Bandera”, e Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni”) in concorso con Roberto Cuturello, congiunto dei Mancuso. In particolare, Giulia Tripodi era accusata di aver prestato (dal marzo 2003 al 31 agosto 2009) del denaro ad usura ad Antonio Agostino, mentre Roberto Cuturello avrebbe provveduto alla materiale riscossione dei crediti. Per Antonio Agostino, quindi, era stato ipotizzato il reato di favoreggiamento personale in quanto avrebbe dichiarato agli inquirenti – contrariamente al vero, secondo l’accusa – di non aver mai ricevuto richieste di restituzione di denaro da parte di Giulia Tripodi, né di aver mai sentito parlare di interessi.
Le accuse nascevano dalle dichiarazioni Ewelyna Pytlarz, la donna polacca moglie di Domenico Mancuso (fratello di Pino Bandera e Scarpuni) divenuta dal dicembre 2013 testimone di giustizia. Il Tribunale ha anche disposto la restituzione della somma di 85mila euro in contanti che era stata sequestrata in casa di Giulia Tripodi. Il pm della Dda di Catanzaro, Andrea Buzzelli, aveva chiesto: la condanna a 4 anni e 6 mesi nei confronti di Giulia Tripodi, l’assoluzione per Roberto Cuturello, e la condanna a 2 anni per Antonio Agostino.
Giulia Tripodi era difesa dagli avvocati Francesca Comito e Francesco Capria, Roberto Cuturello dagli avvocati Giovanni Vecchio e Bruno Vallelunga, mentre Antonio Agostino era assistito dall’avvocato Salvatore Pronestì.
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