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Rinascita Scott, Arena accusa il nonno: «Malandrino libero da quando fu ucciso mio padre»

Prosegue il controesame al maxiprocesso. Il collaboratore di giustizia riferisce di un «rapporto conflittuale» rispondendo alle domande dell’avvocato Rocco Barillaro

Rinascita Scott, Arena accusa il nonno: «Malandrino libero da quando fu ucciso mio padre»

Il nipote, collaboratore di giustizia, che accusa il nonno, ’ndranghetista della vecchia guardia e dagli anni ’80 in avanti «malandrino libero». È una delle pagine più significative del maxiprocesso Rinascita Scott. «Il 3 gennaio 1985 scompare mio padre per lupara bianca, io avevo sette anni e mezzo», racconta Bartolomeo Arena in avvio del controesame condotto dall’avvocato Rocco Barillaro, difensore di Vincenzo Pugliese Carchedi, nonno materno del superteste che, in pratica, rimase la principale figura maschile di riferimento di colui che oggi rappresenta una delle carte più importanti per la pubblica accusa, rappresentata oggi, nell’aula bunker di Lamezia Terme, dal pm antimafia Anna Maria Frustaci.

Il pm Anna Maria Frustaci

«Mio padre non si piegava ai Mancuso»

Una vita, quella di Arena, vissuta nella ricerca della verità della morte del padre: «Almeno fino al 2005, quando è nato mio figlio ed io cambiai. Cosa accadde nel dettaglio, lo appresi da Giovanni Franzé e Salvatore Tulosai. Fu Giuseppe Mancuso detto ’Mbbrogghjia, assieme ai sangregoresi, ad ucciderlo, perché mio padre non si piegava ai Mancuso. Dopo la morte di mio padre, inizialmente fu mio nonno a sostenere economicamente la mia famiglia. Negli anni ’90 poi cessò di aiutarci, perché era più propenso a viaggiare, divertirsi e sperperare il denaro con le donne».

I rapporti conflittuali nella famiglia Arena

Arena riferisce di un rapporto «conflittuale» col nonno: «Con me erano a volte buoni, altre volte no. Con mia madre praticamente zero. Con mio padre aveva buoni rapporti solo quando gli conveniva. Gli conveniva quando mio padre era diventato qualcuno e mio nonno non contava più niente. Poi mio padre ci rimise le penne. Lui preferiva viaggiare, andare all’estero, in Polonia, Bulgaria, Belgio. Poi ha sposato una donna polacca. Non so se questo matrimonio sia cessato, ma so che poi ha avuto un’altra compagna». Vincenzo Pugliese Carchedi, spiega il collaboratore rispondendo alle domande del difensore, creò una delle prime tavole calde a Vibo Valentia, La Bussola: «Fu creata a fine anni ’60 e fu chiusa nella prima metà degli anni ’70. Era a conduzione familiare, ci lavorava anche mia madre. Prima della Bussola aveva la Trattoria del camionista. Ha svolto il lavoro di imbianchino e aveva aperto anche un negozio in via Terravecchia. Due dei suoi figli impararono il mestiere da lui. Lui a Milano, a trent’anni, ebbe un incidente in moto, rimase in coma per un periodo, perse un occhio e da allora percepì una pensione di invalidità».

Il gruppo criminale di Bivona

Arena, incalzato dall’avvocato Barillaro, rammenta come nel 1972 il nonno fu arrestato assieme ad «Antonio Galati, poi assassinato nel 1981, e ad un tale Muzzopappa, pure questi di Mileto, per il sequestro D’Amato. Mio nonno uscì assolto perché era innocente e poi arrestarono i veri sequestratori. Più avanti, sempre verso la fine degli anni ’70, fu di nuovo arrestato per il favoreggiamento di un latitante e credo che finì anche in questo caso assolto». Legatosi al clan Pardea, a suo tempo egemone a Vibo Valentia, il nonno si staccò dai Pardea. «Si trasferì a Bivona – dice il collaboratore – dove creò un nuovo gruppo criminale. Era gente di Bivona, Porto Salvo e Vibo Marina, una società nuova indipendente da quella di Vibo». Per realizzare il “corpo rivale” ai Pardea, siamo nel 1973, Vincenzo Pugliese Carchedi avrebbe avuto la benedizione dei Mammoliti di Castellace. «Mio nonno, però, non ne era né il capo locale, né il contabile. Dopo la morte di mio padre non prese parte attiva ad alcun locale di ‘ndrangheta e rimase un malandrino libero, che però conosceva, frequentava ed aveva rapporti con ’ndranghetisti».

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