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«In ostaggio della ‘ndrangheta per tre mesi, vi racconto la mia odissea» – Video

Il 5 gennaio del 1979 il marchese Bernardo Toraldo di Tropea fu liberato dopo centocinque giorni di prigionia. A distanza di 40 anni il toccante ricordo di quei momenti

«In ostaggio della ‘ndrangheta per tre mesi, vi racconto la mia odissea» – Video

Centocinque giorni, quindici chili e trecentoventi milioni di lire. Se si volesse condensare in numeri il rapimento del marchese Bernardo Toraldo, si potrebbero utilizzare proprio questi: 105, come i giorni di prigionia; 15, come i chili persi in più di tre mesi; 320, come i milioni pagati per il riscatto e mai recuperati. Ma una vicenda di tale intensità, capace a distanza di quarant’anni di tenere ancora banco per quanto vissuto dal protagonista, non si può ridurre all’impersonalità delle cifre. È qualcosa che va oltre, una lesione nell’animo di un uomo sulle cui rughe è ancora impressa la sofferenza di allora, come i solchi su un vecchio vinile suonato all’infinito. «Chiamatemi come volete, ma lasciate perdere “marchese”». Ci accoglie così nel suo palazzo alle porte del centro storico di Tropea, un enorme edificio in stile liberty sorvegliato dall’imponenza di paraste e bocche di leone. Il cortile interno è ampio, tutt’attorno si affacciano finestroni che sembrano scrutare l’arrivo di ospiti e familiari. Proprio come quella notte del 5 gennaio 1979, quando, alla presenza di tutto il paese, si concluse il suo calvario di rapito con una grande festa al suono delle campane allertate dal parroco. Ci sembra di toccare quei momenti, mentre la sua voce educata li riporta in vita un po’ a fatica, impastati tra le pieghe del tempo e dell’oblio inconscio: «Quarant’anni – ci dice -, non lo ricordavo neanche, me l’avete riportato voi alla memoria, eppure sembra ieri». Dal divano granata del suo palazzone, Toraldo inizia a parlare. Parte piano, ricorda come iniziò tutto: «Una lunga parentesi della mia vita. Era un sabato, stavo scaricando dei sacchi di cemento per fare dei lavori nella stalla della mia tenuta a San Calogero, sul sedile c’era anche mia figlia di 5 anni. A un certo punto arrivò un’auto blu dalla quale scesero degli uomini incappucciati e armati. Capii subito cosa volessero e gli andai incontro per evitare che si accorgessero di mia figlia. Mi fecero salire in macchina e mi incappucciarono mentre sentivo uno strano odore che probabilmente era etere. Dopo un po’ arrivammo in un boschetto dove restammo una mezza giornata. Sentivo elicotteri, camion, forse eravamo vicino a un’autostrada. Poi mi portarono in un casolare dove c’era un fienile e passammo lì le prime due notti. Poi, da qui, andammo in Aspromonte, in una capannina di legno e plastica trasparente dove restai per il resto della prigionia, sempre incatenato e incappucciato». Momenti duri sin dalle prime battute: «Come mi hanno trattato? Diciamo che ne sono uscito vivo. Non mi hanno fatto nessuna ulteriore cattiveria oltre a tenermi incappucciato e incatenato. Ricordo che si mangiava bene, per un certo periodo anche ottimi funghi fritti e non potrò mai dimenticare i patati ch’i coppi, cucinate con le bucce, tipiche di quelle zone. Poi carne, mattina e sera, mai frutta né verdura, per non parlare dell’igiene: non ho mai lavato i denti, però mi davano caffè e sigarette a volontà». Le parole di Toraldo scorrono via veloci, sembra quasi di rivivere un racconto epico, trama e ordito di un’Odissea raccontata in prima persona da Ulisse e dalla sua proverbiale astuzia: «Tenevo la mente occupata ripassando le giornate trascorse, le nozioni scolastiche, e cercando di fregarli il più possibile: per ognuno di loro tenevo un diario e un orologio perché cercavano di confondermi sia l’ora che la data, ma non ci sono mai riusciti. Io parlavo e assorbivo qualsiasi cosa mi confidassero, riuscivo a capire dalla voce l’età, la corporatura, la personalità e la vita di ognuno. E non potrò mai dimenticare gli odori perché la vista era inutilizzabile per via del cappuccio: uno di loro aveva sempre puzza di pecora addosso, era un pastore che avevo battezzato “la volpe”. Per identificarli, infatti, usavo i nomignoli: un altro era Gigino e così via. Tutti elementi determinanti poi per la cattura e il processo». I giorni passano, ma sembrano tutti uguali, tutti segnati dal giogo del cappuccio e delle catene. Toraldo, però, non si scoraggia, pensa a quando potrà riassaporare la libertà, confortato dai limiti di carcerieri il cui ruolo sembra quasi ribaltarsi: «Prima della liberazione cercavano di farsi pagare e io gli davo consigli perché non erano in grado neppure di fare questo. Poi ce la fecero e ci incamminammo, mi caricarono in macchina sempre incappucciato e mi lasciarono sull’autostrada, allo svincolo di Mileto. Era la notte tra il 4 e il 5 gennaio. Dopo un po’ tolsi il cappuccio e non potrò mai dimenticare la prima cosa che vidi: le mie mani bianchissime al chiaro di luna. Subito cercai di fermare delle auto ma ovviamente non mi aiutarono, e non potevo biasimarli: avevo la barba lunga di tre mesi che mi arrivava all’ombelico, una puzza addosso incredibile, un vecchio cappotto e i vestiti del giorno del rapimento, una magliettina di cotone e dei pantaloni sudici. Non si fermò nessuno finché non passò una volante della polizia stradale di Lamezia che mi portò subito in centrale. Qui entrai in bagno e mi guardai allo specchio: ero irriconoscibile, ebbi paura». Poi, l’agognato ritorno a casa: «Arrivato a Tropea ebbi una grande dimostrazione d’affetto del paese: tutti mi sorridevano, mi stringevano la mano, mi abbracciavano nonostante il mio puzzo. Fu bellissimo. Poi rividi le mie bambine e la vita ricominciò». I rapitori, vicini alle cosche del reggino aspromontano e divisi tra San Giorgio Morgeto e la Lombardia, furono catturati grazie alla capacità di Toraldo di assorbire ogni sfaccettatura della vicenda e di riportarla perfettamente agli inquirenti che in poco tempo li individuarono. Gli chiediamo se la sua esperienza, come quella di tutti i sequestrati dell’epoca, si sarebbe potuta evitare, impendendo così alla ‘ndrangheta di acquisire capitali e diventare la multinazionale del crimine che è oggi: «Non so se credere all’esistenza della ‘ndrangheta – ci risponde scettico -. Secondo me erano ladri di polli e di uomini, perché un sequestro come il mio non può rendere, erano quattro o cinque persone asservite al mio rapimento, quanto avrebbero dovuto guadagnare? La stessa gestione delle situazioni lasciava a desiderare, erano completamente disorganizzati. Insisto col dire che erano ladri di polli. E pure stupidi». La risposta ci fa riflettere, come tutto ciò che dice quest’Ulisse moderno. Cerchiamo di scavare ancora per capire a distanza di quarant’anni quali solchi abbia segnato questa esperienza. Lui si mostra, senza indugi, anche se quel cappuccio sembra non essere del tutto sepolto: «La vita è cambiata, sono rimasto sicuramente più pragmatico, un tempo sognavo di più. Ho chiuso la stalla, volevo andar via dall’Italia, ma alla fine sono rimasto qui a combattere, ho cambiato mestiere e ho ricominciato da capo. Però ricordo ancora la lettera di uno dei rapitori che chiedeva perdono: risposi che l’avrei fatto nel giorno in cui non avrei più pensato al sequestro. Ancora sto aspettando quel momento, perché sono cose che non si dimenticano mai».

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