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Rinascita Scott, Domenico Camillò si avvale della facoltà di non rispondere

Lo “Zio Mimmo” nel settembre del 2020 aveva tentato un percorso di collaborazione con la giustizia, ma gli inquirenti non gli credettero. Stamani in aula come teste assistito, va via dopo pochi minuti. Domani nell'aula bunker inizia Imponimento

Rinascita Scott, Domenico Camillò si avvale della facoltà di non rispondere

Il passo incerto di un uomo avanti negli anni e provato dalla malattia. Si regge a fatica dalle braccia di due carabinieri mentre raggiunge il banco dei testimoni. Domenico Camillò, 80 anni, di Vibo Valentia, il patriarca del clan dei Ranisi, viene chiamato a deporre come teste assistito della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. C’è l’avvocato Annalisa Pisano, avvocato dell’ex killer Raffaele Moscato, indicata d’ufficio, ad affiancarlo. «Mi avvalgo della facoltà di non rispondere», dice alla presidente del collegio giudicante Brigida Cavasino.

È un suo diritto. Dopo l’avvio della collaborazione con la giustizia del figlio Michele, iniziata il 4 agosto 2020, aveva rilasciato una serie di dichiarazioni auto ed eteroaccusatorie, manifestando egli stesso propositi di pentimento. Un pentimento a metà si disse, che non condusse al suo accesso al programma di protezione. I magistrati della Procura guidata da Nicola Gratteri ed i carabinieri, non gli credettero: era il 9 settembre 2020. «Quanto finora riferito, oltre a risultare generico e confuso – si legge nel verbale acquisito agli atti del maxiprocesso Rinascita Scott – risulta in parte non congruente con le risultanze già acquisite e con più dichiarazioni dei collaboratori di giustizia». [Continua in basso]

Ammise – allora – di essere un uomo d’onore, di aver seguito le orme del patrigno Rosario Pardea, vecchio boss di Vibo Valentia, sin dall’età di vent’anni. E dopo lustri ai margini della criminalità, restando nei fatti immune da questioni giudiziarie – ammise anche di essere stato coinvolto dagli eredi del clan dei Ranisi per «armare» una nuova ‘ndrina, della quale, peraltro, uno dei suoi appartenenti, Bartolomeo Arena, pentendosi, aveva già svelato i segreti.

Imputato nello stralcio del maxiprocesso che si celebra con rito abbreviato, «Zio Mimmo» oggi è schiacciato da un doppio peso: un figlio collaboratore di giustizia, da una parte, ed un altro, il maggiore, Giuseppe, detenuto mai crollato nel supercarcere di Tolmezzo; poi il nipote omonimo, giovanissimo, Domenico, oggi a Poggioreale. Accusò sé stesso, non altri. Anzi, disse di non saper nulla di reati, danneggiamenti o traffici illeciti consumati nella città di Vibo Valentia, quella nella quale il suo gruppo criminale s’era ritagliato – secondo la tesi accusatoria – uno spazio rilevante appaiandosi alle cosche dei Lo Bianco-Barba e dei Cassarola, colpite dalla colossale operazione del 19 dicembre 2019.

Il presunto boss è in aula, siede tra i banchi, dietro una mascherina chirurgica ed un paio di occhiali da vista. Si “avvale” e va via. È vecchio e malato, non contribuirà oltre al maxi-processo, limitandosi di fatto ad attendere la sentenza del gup Paris che lo dovrà giudicare: il procuratore Nicola Gratteri ed il suo pool, per lui, hanno chiesto una condanna a ben vent’anni di reclusione.

Il maxi riprenderà giovedì prossimo, con il controesame di uno dei collaboratori chiave, Emanuele Mancuso, giovanissima prima gola profonda del gigante mafioso di Limbadi e Nicotera Marina. Domani, però, l’aula bunker di Lamezia Terme non resterà deserta. In programma c’è, infatti, l’avvio dell’udienza preliminare di un altro maxiprocesso, Imponimento, che condusse la Dda di Catanzaro e la Guardia di finanza a disarticolare un altro impero criminale, quello forgiato dal boss Rocco Anello, che dall’Angitolano raggiunse perfino la Svizzera.

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