Scandalo “Strada del Mare”, la Corte di Cassazione conferma sequestro per 5 milioni di euro
Supera il vaglio della Suprema Corte l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Vibo Valentia che si era pronunciato favorevolmente rispetto alla decisione del gip
Sono stati dichiarati “inammissibili” dalla sesta sezione penale della Cassazione i ricorsi di tre indagati dell’inchiesta sulla “Strada del mare”. Restano dunque sotto sequestro i beni nella disponibilità degli indagati Vincenzo Restuccia, 76 anni, di Rombiolo, direttore tecnico delle imprese Restuccia, Antonino Scidà, 51 anni, direttore tecnico delle imprese di Restuccia; Giacomo Consoli, 65 anni, di Vibo Valentia, ex dirigente dell’ufficio Lavori Pubblici della Provincia di Vibo Valentia, sino alla concorrenza della somma complessiva di oltre cinque milioni di euro. Esattamente 5.024.614,90 di euro pari al profitto – secondo i magistrati – dei reati di frode esecuzione del contratto per i lavori “Strada del mare” che nelle intenzioni avrebbe Rosarno a Pizzo passando lungo la costa vibonese ed i territori comunali di Pizzo, Vibo, Briatico, Zambrone, Parghelia, Drapia, Tropea, Ricadi, Joppolo e Nicotera.
Contestati poi a vario titolo pure i reati di truffa aggravata e falso ideologico, unitamente agli altri due indagati dell’inchiesta: Antonio Francolino, 52 anni, funzionario della Provincia e responsabile unico del procedimento per la costruzione della “Strada del Mare”, e Francesco Giuseppe Teti, 65 anni, di Filogaso, ex funzionario della Provincia di Vibo Valentia. Gli ultimi due non avevano proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione con la quale il Tribunale di Vibo Valentia aveva respinto l’istanza di riesame confermando quindi il decreto di sequestro preventivo emesso il 26 febbraio 2016 dal gip dello stesso Tribunale.
Per la Cassazione sono da condividere le argomentazioni del Tribunale del Riesame di Vibo che ha ritenuto sussistente il fumus dei reati ipotizzati sulla scorta delle indagini svolte sull’appalto della “Strada del Mare”, realizzati solo in parte, nel cui ambito erano emerse “illegittime contabilizzazioni dei lavori effettuati dall’Ati aggiudicataria, Vincenzo Restuccia Costruzioni srl e Demoter spa, alla quale erano state liquidate somme in eccesso – rimarcano i giudici – nella misura di circa 5 milioni di euro rispetto ai lavori effettivamente eseguiti nonché corrisposto l’acconto di 150 mila euro, oggetto dell’accordo bonario raggiunto tra la Provincia di Vibo Valentia e l’impresa appaltatrice per transigere la controversia relativa alle riserve formulate dall’appaltatrice nel corso dell’esecuzione del contratto”.
Gli artifici contabili ed i falsi in atti pubblici. Secondo i giudici, tali profitti “realizzati tramite una serie di artifici e falsità in atti pubblici erano stati garantiti dall’assenza di controlli e dall’atteggiamento di favore dei funzionari dell’amministrazione provinciale, che avevano avallato e liquidato all’impresa Restuccia 11 stati di avanzamento lavori per un importo complessivo superiore a 11 milioni di euro a fronte dell’importo dei lavori, effettivamente eseguiti, pari a 6 milioni di euro, risultante in modo convergente dalla consulenza tecnica del pubblico ministero, dalle dichiarazioni di funzionari del Settore finanziario dell’Amministrazione Provinciale e dall’indagine della Commissione interna di inchiesta della Provincia di Vibo Valentia: importo – sostengono i magistrati – liquidato nonostante le numerose criticità verificatesi nel corso dell’esecuzione delle opere e l’interdittiva antimafia, emessa da distinte Prefetture, nei confronti delle imprese aderenti all’Ati”.
Per la Suprema Corte i ricorsi sono pertanto da ritenersi “inammissibili” perché “manifestamente infondati” e legittimi appaiono i sequestri per equivalente nel caso in cui “il profitto del reato sia costituito dal danaro, bene fungibile per eccellenza, e sia oggettivamente impossibile, stante il decorso del tempo, il sequestro diretto delle somme illecitamente incamerate come nel caso di specie, tenuto anche conto della cessazione del contratto, risalente all’ottobre 2012, e della messa in liquidazione della società sin dal novembre 2013 con proposta di concordato preventivo, omologato dal Tribunale fallimentare con vendita dei beni e nomina di liquidatori giudiziali”.
La Cassazione sostiene infine che nei lavori della “Strada del Mare” ci si trova dinanzi ad un contesto di “irregolare gestione dei rapporti tra ente appaltante ed impresa, improntato a favorire quest’ultima mediante controlli superficiali, come riferito da dipendenti dell’ente pubblico, e nonostante i problemi verificatisi nell’esecuzione del contratto”.
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